Cinema Speculation di Quentin Tarantino, come mettere in prospettiva evoluzione personale e cinema americano

Per un curioso intreccio del destino, il secondo libro di Quentin Tarantino arriva in Italia per La Nave di Teseo (pag.42o, euro 20) proprio nei giorni in cui rimbalza in rete l’annuncio del suo decimo (e ultimo?) lungometraggio da regista, dal sibillino titolo The Movie Critic. Circostanza ideale, perché l’obiettivo di Cinema Speculation è proprio accreditare l’autore losangelino come critico (e storico) del cinema, vista la sua promessa di appendere la macchina da presa al chiodo una volta varcata la soglia dei 60 anni. Di sicuro, l’intenzione non è estemporanea, come sa chi conosce il podcast Video Archive (condotto insieme a Roger Avary) o gli essay sul sito del New Beverly Cinema o ancora ha seguito negli anni le interviste e le classifiche disseminate dal nostro nelle più svariate occasioni. Se del suo cinema si è spesso rimarcata l’estrema cinefilia del tessuto connettivo delle sue storie, è anche vero che Tarantino fa dannatamente sul serio quando espone la sua conoscenza della materia, mettendo in discussione gerarchie consolidate, rivalutando e riscoprendo nomi del passato o cinematografie meno in vista (pensiamo a come Bong Joon-ho lo ringraziò pubblicamente agli Oscar), in una ricerca della verità del narrare che non vuole conoscere confini. Il punto di partenza è dunque propedeutico all’intenzione di fare sul serio, con un volume di oltre 400 pagine, caratterizzato dall’agilità espositiva che già conosciamo grazie ai precedenti citati, ma che non cerca scorciatoie e non ha peli sulla lingua per far valere le proprie ragioni.

 

Bullitt (1968)

 

La struttura propone perciò una ricognizione attraverso 13 film (uno per ogni capitolo), che passano in rassegna il periodo della formazione cinefila del futuro regista, dal 1968 al 1981. Gioverà ricordare a questo proposito che Tarantino è nato nel 1963 e quindi il periodo interessato corrisponde sostanzialmente al passaggio tra l’infanzia e l’adolescenza. Si parte così da Bullitt di Peter Yates, fino a Il tunnel dell’orrore di Tobe Hooper e in mezzo trovano spazio, fra gli altri, titoli più noti come Un tranquillo weekend di paura, Getaway!, Taxi Driver, Fuga da Alcatraz e Hardcore, insieme ad alcuni meno storicizzati come Organizzazione crimini, Taverna Paradiso e il suo amatissimo Rolling Thunder (“il film che mi ha dato il coraggio di diventare un critico”). Poche le concessioni ai filoni tradizionalmente assimilati al “tarantinismo”, come il cinema asiatico (pressoché assente), l’horror (affrontato in minima parte) e l’Italia dei generi (anch’essa praticamente citata solo en passant), sebbene poi molti dei titoli siano spesso inquadrati proprio attraverso la lente deformante del cinema puramente di genere se non proprio exploitation – valga per tutti l’insistenza sul filone revengeamatic, in cui i protagonisti si vendicano delle violenze subite eliminando spietatamente i propri aguzzini. L’analisi cerca di allargare il più possibile le prospettive, inseguendo quel peculiare sexy vibe che permetta al lettore di condividere l’entusiasmo per la materia trattata. Si spazia perciò tra aneddoti, ricostruzioni sulla genesi dei titoli e riflessioni che entrano nel merito della storia del cinema, con riferimenti a svariate altre pellicole, alle carriere degli attori e degli autori coinvolti, o di quelli che, in alcuni divertenti what if potevano esserlo: nel dodicesimo capitolo (quello che, guarda caso, dà anche il titolo al libro), Tarantino immagina ad esempio cosa sarebbe stato Taxi Driver in mano a Brian De Palma, “il primo dei Movie Brats a leggere la sceneggiatura” e “a considerare l’idea di esserne il regista”.

 

Fuga da Alcatraz (1979)

 

Il corpus appare coerente nella misura in cui insiste su determinate figure, come Don Siegel (Ispettore Callaghan: Il caso Scorpio è tuo, insieme al già citato Fuga da Alcatraz) e il duo Paul Schrader e Martin Scorsese – accomunati a quanto pare dall’ossessione di “rifare” costantemente Sentieri selvaggi nei propri film. A circa metà dell’opera, come in un ideale “intervallo” cinematografico, campeggiano due scritti dedicati rispettivamente alla generazione della New Hollywood nel suo complesso e a Kevin Thomas, seconda penna critica del Los Angeles Times di cui Tarantino elogia il lavoro di talent scout, attribuendogli anche un ruolo non secondario nel passaggio di alcuni autori emergenti del periodo alla serie A (l’esempio più lampante è Jonathan Demme). Sempre in quest’ottica viene riprodotto un articolo pubblicato su Fangoria da Barry Brown e dedicato alla “tragica tossicodipendenza di Bela Lugosi”. Il rispetto per la categoria del critico – ricorre spesso il nome di Pauline Kael – va di pari passo con l’atteggiamento più tranchant verso le opere di molti registi, troppo spesso a scapito di una più giusta focalizzazione sui loro universi poetici e allegorici. La narrazione è inserita all’interno di una cornice delimitata dal racconto iniziale delle prime visioni al cinema e da quello finale sul rapporto con l’amico e mentore Floyd, suo primo confidente e compagno di visioni, in cui si estrinseca meglio il forte legame emotivo del giovane Quentin con la cultura black che ricorre in più punti – l’unica concessione al “tarantinismo” già citato, di cui capiamo meglio le motivazioni, contestualizzate anche rispetto al tessuto storico-sociale americano e losangelino.

 

Il tunnel dell’orrore (1981)

 

Se però dovessimo fermarci a questo, il libro sarebbe facilmente da considerarsi nulla più che un piacevole zibaldone, in cui il valore delle dissertazioni, che pure rivendica il proprio status critico, trascolora nell’impressione passionale e nostalgica, adolescenziale appunto. In questo senso, e pur tenendo conto del merito di svariate intuizioni, il volume risulta infatti troppo personale per entrare nel dibattito strettamente critico. Allo stesso tempo, è anche troppo specifico verso un determinato periodo e una cinefilia del passato, per coinvolgere la generazione che su internet si interroga sul destino del prossimo film Marvel senza magari nemmeno conoscere nomi come Warren Beatty o William Devane. Poche speranze infine per i nostalgici degli onnipresenti anni Ottanta, che Tarantino liquida senza misura per “gli orribili film omologati che Hollywood sfornava”. L’impressione però è che sia necessario allargare ancora una volta la prospettiva per considerare Cinema Speculation insieme al precedente C’era una volta a Hollywood (il romanzo, certo, ma anche il film) come parte di una più ampia ricognizione dell’autore su un momento di passaggio della vita (la sua, ma anche quella del cinema americano), che forse arriverà a concludersi proprio con The Movie Critic. È solo un’impressione, ma forse stiamo assistendo in diretta a qualcosa di più articolato di quanto l’aneddotica spicciola e le riflessioni presenti in queste pagine non suggeriscano. O forse, dobbiamo semplicemente seguire alla lettera il dettato tarantiniano, quando nel libro afferma che i registi per loro natura tendono sempre a mentire, con l’unico scopo di romanzare il racconto di sé stessi.