D’istinto verrebbe da pensare al film positivista di Truffaut Il ragazzo selvaggio, ma poi si pensa anche a Il barone rampante di Calvino, al Kipling de Il libro della giungla, oppure, si può pensare a Tarzan per una mitologia più moderna o anche agli avi di una perduta e remota antichità come Romolo e Remo. Ma La storia di Patrice e Michel diretto dal francese Olivier Casas non è nulla di tutto questo e svicolando da ogni crudo confronto tra la razionalità umana e l’istintività selvaggia della natura, non si fa parabola di una crescita, di una resistenza oppure di un positivo riconoscimento dentro i cicli naturali. Il film di Casas, piuttosto, prendendo come spunto una storia vera con tanto di nomi aderenti a quelli di una cronaca del passato e qui riesumata per il suo indiscutibile valore sentimentale, costruisce un percorso di uscita da un peso esistenziale, in una exit strategy da inventare quotidianamente. La storia di Patrice e Michel, ambientato nell’immediato dopoguerra in Francia, è la storia di due fratelli Patrice di 5 anni e Michel di 7. I due bambini sono stati abbandonati dalla madre in un istituto scolastico dove si era concluso un campo estivo, durante l’estate del 1948. Rimasti presso la colonia estiva, un giorno, ritenendo, per una serie di circostanze, di essere colpevoli della morte di un uomo, fuggono nella foresta per non essere catturati dalla polizia. Ci resteranno 7 anni senza che nessuno si occupi di loro. Questa storia li segnerà anche nell’età adulta. Il film d Casas non è dunque il semplice resoconto di un fatto di cronaca del passato che desta comunque curiosità e interesse per il suo svolgersi e per i suoi elementi caratterizzanti: i bambini, la vita selvaggia, il confronto con la natura e le sue innumerevoli trappole, lo sfuggire ai pericoli e il ritorno ad una animalità irrazionale che appartiene in modo naturale al mondo dell’infanzia.
La storia di Patrice e Michel ci sembra invece che lavori attorno all’idea di guarigione dal trauma infantile, illustri o provi ad illustrare un percorso interiore, svolto su un doppio binario dai due fratelli adulti che a nessuno, neppure agli intimi familiari, hanno mai raccontato della loro esperienza infantile. Quella lunga e decisiva parentesi della loro vita è diventata, pertanto, nella nuova stagione della vita di Patrice, che fa il medico e dirige una clinica, e di Michel, architetto affermato con lavori un po’ in giro per il mondo, un fardello non più sopportabile che ha creato una sotterranea e indissolubile unione tra i due fratelli, diventata dipendenza nell’inseparabilità delle loro vite. È proprio questo trauma infantile, ripetuto nel tempo, per i 7 anni durante i quali avvengono le decisive trasformazioni fisiche e psicologiche, a diventare un peso insopportabile e ineludibile nella vita adulta. La fuga e l’adattarsi ad una vita naturalmente basica come quella che si può vivere dentro un ambiente naturale costituisce il trauma che, sconvolgendo ogni ordine comportamentale precedente, obbliga ad una rielaborazione che possa assicurare quella continuità di identità sconvolta dall’evento. È su queste tracce che Casas indaga e quindi non tanto su quell’infanzia interrotta da una madre che rifiuta consapevolmente ogni responsabilità nei confronti dei due fratelli, tra l’altro nati da relazioni extraconiugali, quanto piuttosto su quei tentativi di ricostruire l’identità perduta, quella capacità di avere relazioni sane con il mondo e non viziate da un segreto che funziona come un magnifico isolante, ma erode in modo implacabile le loro vite, rovinando ogni prospettiva di gioia o soddisfazione personale.
In fondo due fratelli non hanno conosciuto altri legami affettivi e per questa ragione il loro rapporto è diventato esclusivo, interdipendente, diventando, a sua volta, indicibile il segreto che li unisce. Se questo ambiente in cui sono cresciuti i loro sentimenti fosse intaccato da presenze estranee si romperebbe quell’equilibrio sentimentale così faticosamente raggiunto in quei sette anni di stretta convivenza. Il mantenere il segreto diventa protezione da ogni esposizione e al contempo, benché penosa, unica modalità di stare al mondo. La storia di Patrice e Michel può dunque diventare il paradigma di un percorso di possibile guarigione con l’inevitabile sacrificio di qualcosa e qualcuno, un sacrificio che lavi una colpa, porti con sé il trauma, ristabilendo un auspicato equilibrio. Casas si adatta, con un montaggio che restituisce quella esiziale continuità tra il passato e il presente, a raccontare la subliminalità insistita del passato nella attualizzazione del presente che, circolarmente, sembra non possa fare a meno di quel passato. Il film crea quel vortice tra memoria e presente, tra desiderio di guarigione e indissolubile legame a quell’infanzia così incisiva – lo è per tutti, ma per i due protagonisti diventa un insopportabile valore aggiunto – divenuta labirinto della coscienza che, avvolgendo le loro vite, gli impedisce di uscire, anche nell’età adulta, da quella foresta e quindi guarire dal trauma.
Yvan Attal è Michel e Mathieu Kassovitz è Patrice, due registi che non vestono affatto male i panni degli attori, che lavorano in sottrazione e senza desiderio di primeggiare nelle loro rispettive interpretazioni. Il merito va riconosciuto anche a loro. La storia di Patrice e Michel ha il merito di indagare con una certa perseveranza e con una buona capacità introspettiva su quegli eventi, violenti e decisivi, che aprono fratture nella coscienza, che diventano, a loro volta, un peso esistenziale insopportabile. Un percorso accidentato, lungo e pieno di insidie, a conferma che i traumi infantili si possono cicatrizzare ma non guarire e che le età si susseguono in una continuità inavvertita tanto da impedire di relegare il passato in un tempo che pensiamo come inaccessibile, quel tempo diventa ininterrotto confondendo quel passato con il nostro discontinuo presente.