Che i gatti siano da anni star incontrastate dei social network non è una novità particolarmente sorprendente, tuttavia la premessa della serie Netflix Giù le mani dai gatti: caccia a un killer online (nell’originale un più diretto e provocatorio Don’t f**k with cats) – in cui internet viene dipinta sbrigativamente come un Far West dove a una facciata incontaminata fatta di bimbi felici e simpatici animaletti si contrappone un lynchano cuore di tenebra – prende in pochi minuti la forma di una cronaca vertiginosa che si insinua nelle pieghe perverse del web: la storia ricostruita da Mark Lewis, che dirige i tre episodi in cui è suddivisa, è quella della vera caccia internazionale all’uomo conclusasi nel 2012 a Berlino con la cattura di Luka Magnotta, giovane assassino canadese che voleva essere come la Catherine Tramell interpretata da una memorabile Sharon Stone in Basic instinct, condannato due anni dopo all’ergastolo per l’omicidio del cinese Jun Lin. L’aspetto più curioso di questa vicenda criminale sta però tutto all’origine di un’indagine serrata e amatoriale nata dietro lo schermo di un computer, quando un gruppo di animalisti si imbatte online nel primo esperimento violento di Magnotta, sorta di snuff movie (1 boy 2 kittens) in cui uccide a sangue freddo due micetti mettendoli letteralmente sottovuoto. Dal desiderio di rintracciare l’autore del video, inizialmente sconosciuto, parte una ricerca febbrile che si dipana sulla rete tra depistaggi, svelamenti, indizi, fughe, nuovi video, fino all’omicidio e al successivo arresto.
Una storia inquietante i cui pezzi vengono ricomposti da Lewis con un ritmo accattivante e incalzante, che evidenzia prima di tutto la duplice componente ossessiva dell’intera vicenda, oltre che la gelida ferocia di un ragazzo innamorato della propria immagine alla ricerca di una distorta celebrità. Le voci a cui il regista affida principalmente il racconto sono quelle di Deanna Thomson e John Green, principali testimoni e protagonisti dell’investigazione online, che inevitabilmente cadono vittime di una ricerca frenetica e maniacale, ma anche invasiva della quotidianità di una vita privata poco entusiasmante, arrivando a sfiorare rischi reali per la propria sicurezza. Un’ossessione che fa da contraltare a quella che invece si cela dietro la follia del killer Luka Magnotta, invaghito di se stesso e preda di una vanità quasi grottesca che non si esaurisce nella miriade di foto di cui lui stesso ha disseminato il web per autocelebrarsi, ma che ha bisogno di trovare sfogo nell’eccezionalità di un omicidio, inseguendo il modello cinematografico di un’avvenente assassina. Ed è bizzarro il modo in cui arriva ad emulare la protagonista di Basic instinct fino anche a fumare una sigaretta e accavallare le gambe mentre è in stato di arresto, ricalcando la famosa scena dell’interrogatorio nel film di Paul Verhoeven; un momento filtrato da una telecamera di sorveglianza che, con un po’ di azzardo, potrebbe perfino ricordare la sequenza finale di Psyco in cui Norman Bates, ormai neutralizzato, si mostra perfettamente consapevole di essere osservato, pronto alla sua ultima messa in scena.
La serie fa dunque emergere il ritratto di un ragazzo profondamente disturbato, senza addentrarsi mai nello scandaglio di una personalità complessa, ma limitandosi ad esporre i materiali originali raccolti durante le indagini: fotografie, video, testimonianze, filmati di repertorio, corredati di nuove interviste e contributi, mentre seguiamo la sua fuga come una specie di danza macabra, puntualmente sottolineata nel primo episodio dal celebre brano sinfonico omonimo di Saint-Saëns. Resta però alto il livello di coinvolgimento dello spettatore, chiamato virtualmente a partecipare alla caccia, soprattutto grazie al ricorso a un linguaggio che fa largo uso di elementi riconoscibili dell’esperienza web di tutti i giorni (dai gruppi Facebook all’uso di Google Maps e YouTube), sollevando qualche riflessione sulle trappole e i sentieri pericolosi del web, ma a maggior ragione confermando la “regola zero”, che scherzare con i gatti non è mai un’idea astuta.