Lo leggi tutto d’un fiato, e per una volta non è il solito slogan della solita quarta di copertina: Missing. New York di Don Winslow (Einaudi Stile Libero, pp. 312, 18 euro) è un bel libro. Non il migliore dello scrittore americano, alzi la mano chi pensa il contario! Ma sicuramente un bel libro, quello che in altri tempi qualcuno avrebbe definito, e con qualche buona ragione, un libro di routine. Ma la routine di Winslow è per l’appunto di Winslow e di nessun altro (l’elenco sarebbe lungo). Il plot non è originale, non ci sono personaggi indimenticabili, non c’è sangue, non c’è sesso, non c’è strazio delle carni, e allora dove sta la forza di questo romanzo? La risposta è semplice e ovvia per uno che di mestiere fa lo scrittore (Winslow): la qualità della scrittura. Tre semplici aggettivi per definirla: potente, precisa, puntuale (e di tutto ciò dobbiamo ringraziare l’eccellente traduzione di Alfredo Colitto). Non c’è una parola fuori posto, una nota dissonante, un errore o un inciampo della (e nella) narrazione, Missing non è mai “troppo”, è sempre QB, “quanto basta”, e mette in scena un meccanismo che funziona senza alterazioni lessicali e trovate a buon mercato. Il protagonista è Frank Decker, un poliziotto che per una promessa alla madre di una bambina scomparsa è disposto a dimettersi, a rinunciare alla carriera, al matrimonio, a partire per un viaggio attraverso gli Usa. L’esito è certo (sorry, lo capireste dopo poche pagine), ma l’attenzione del lettore scivola ben presto sul protagonista, sul crescendo irresistibile delle sue convinzioni, delle sue ossessioni, della sua purezza sentimentale e mai ideologica. A un certo punto tu, lettore, diventi Frank Decker (un attimo: non è questa la novità!), ma da quel momento non ti chiedi più come finirà la vicenda, ma come diventerai tu alla fine della storia. Frank Decker diventerà un personaggio indimenticabile? Siamo pronti, noi lettori, a diventarlo? Che cosa siamo disposti a perdere per diventarlo?
Andrea Rossi