2022: odissea nello spazio post-edenico. Se il Paradiso è l’incrocio fra una sala prove e una sala giochi, il dietro le quinte dello spettacolo del mondo, il luogo della sperimentazione, di ciò che è ancora tutto in potenza e in comunione dei beni (del Bene?), la caduta ci getta invece negli spazi siderali e incolmabili dell’assenza, dell’esilio e della mancanza (Male-di(re)zione). Eva si potrebbe ribattezzare “E va”, in questa sua proiezione fiab-esca e impulsiva a fare due passi di danza, bulimica di mele da raccogliere e addentare strada facendo, come Pollicino con i suoi sassolini, verso l’abisso, lontana dal suo Adamo adagiato e prudente. E mangiare il frutto dell’albero della conoscenza del Bene e del Male è lo scandalo, etimologicamente la pietra d’inciampo (sasso e sesso), che porta alla cacciata e al precipizio: melodramma peripatetico della separazione fra un uomo e una donna senza istruzioni per l’uso, prossimi eppure a infinita (di)stanza, vagabondi e prigionieri sul palco, uno l’ombra dell’altro (come in Ferro3 di Kim Ki Duk in un momento emblematico di questo atto performativo: e dove se non in Genesi si fanno cose con le parole?), radiati, dimentichi, sterili in qualche modo (in qualunque mondo), in contatto ra-dio-fonico con un divino assente, o lontanissimo, che pure assiste (forse?) ai loro traslochi di sensi, alle loro di dislocazioni di segni, al ballo mancato e alla canzone dell’incompletezza, all’insoddisfazione creativa e creatrice di questa coppia scoppiata alla ricerca disperata di una discendenza, nel tentativo (letterale e vano) di mettere le cose a posto, traslocarle e inscatolarle, con i contorsionismi di una cosmogonia disegnata nella (e con) la sabbia, in un finale che non finisce, in una operosa e continua, ribollente ribellione (quel Bee Riot del titolo enigmatico, come fosse una puntuta possibile risposta al dubbio amletico, fra ricatto e riscatto, per tenerlo sempre aperto, come puntura, come ferita).
Non c’è una trama in questa drammaturgia elementare ed essenziale, eppure criptica e profetica, in cui vediamo più un moto dipanarsi, un uni-verso esprimersi, attraverso le sue tracce sparse, dove spesso parla più il corpo, mimico, danzante, giocoso, indecifrabile, nell’incontro/contrappunto fatato del moto espressivo della danzatrice Valia La Rocca e della voce invocante e dolente dell’attore Isacco Venturini, un’Eva e Adamo irrequieti e ludici, separati eppure all’unisono, disfunzionali in cerca di un’armonia mai posseduta. Più che il testo che pure invoca appelli senza risposte e domande al vento, parlano i corpi, gettati nell’universo, le voci incapsulate dal microfono e lanciate nel cosmo, gli oggetti reinventati, i passi di danza come ripetizione e liberazione, il linguaggio dei segni come mistero e potenza del linguaggio… Interessante che l’unica ipotesi di ricongiungimento fra i sessi esiliati/distanziati dall’hybris della curiosità e dalla violenza dell’essere gettati sempre altrove, squilibrati, sia all’insegna del tentativo di inscatolamento maschile e della conseguente contorsione ed escapologia femminile.
C’è una sovrabbondanza, un felice eccesso, un qualcosa che sa d’incompiuto e in progress, senza risultare insensato e sterile ma anzi aperto e fruttifero, in questa drammaturgia e regia di Linda Dalisi (già geniale propiziatrice di numerosi felici lavori di Antonio Latella e voce decisiva della compagnia stabilemobile, da cui lo spettacolo è prodotti) del voler ancora abitare con i suoi due protagonisti, l’Eden del mettersi (e metterci) alla prova, come se il teatro fosse il ricordo vivo di quel giardino, la terra dove ripetere e inventare i disegni della creazione, innaffiare con il nostro sguardo le mute radici dell’albero originario. Bello vedere Bee Riot nel corso della rassegna Da vicino nessuno è normale, alla Cucina Olinda dell’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini, mentre regna l’afa milanese, mitigata da qualche goccia di pioggia che nutre le piante del parco e conforta gli umani spettatori.
Foto di Ivan Nocera
Spettacolo visto a Milano, Teatro La Cucina, il 21 giugno