Il vizio dell’arte di Alan Bennett secondo Bruni e Frongia

Cominciamo dalla fine, o meglio cominciamo dalle fini, perché Il vizio dell’arte (The Habit of Art, 2009) di Alan Bennett, in scena in questi giorni al Teatro dell’Elfo Puccini di Milano con la regia di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia, di fini, ovvero di finali, ne ha almeno quattro. Per un paio d’ore Bennett ci diletta, attraverso un uso sapiente del dispositivo secolare del teatro nel teatro (che ci fa pensare subito all’edipico Hamlet), entrando e uscendo continuamente dalla finzione, con la storia della prova di una nuova produzione del National Theatre di Londra, Il giorno di Calibano, che a sua volta racconta l’incontro in tarda età tra il poeta disoccupato Wystan Hugh Auden e il compositore Benjamin Britten, alle prese con la sua ultima opera, Death in Venice, ispirata all’omonimo racconto di Thomas Mann, suocero di Auden. In uscita dalla pièce Bennett dà voce, in sequenza:

1) al biografo ufficiale di Auden e Britten, Humprey Carpenter (interpretato dall’attore fittizio Donald, interpretato dall’attore reale Umberto Petranca), cui è affidato il finale documentario, che annuncia la morte dei due protagonisti;

2) ad Auden (interpretato dall’attore fittizio Fitz, interpretato con enfasi classica dall’attore reale Ferdinando Bruni), che intona la sua poesia sulla morte di Yeats, archetipo di ogni poeta che scompare («E, poeta, tu, sprofonda / nella tenebra più fonda, / la tua voce sempre voglia / liberarci d’ogni doglia»);

3) a Stuart (interpretato dall’attore fittizio Tim, interpretato con intensità dall’attore reale Edoardo Barbone), la marchetta che Auden paga per fare sesso con lui, chiamato a riscattare i reietti e i dimenticati dalla storia ufficiale: «Quand’è che compariamo e possiamo dire la nostra? Le vite dei grandi sono ben confezionate per i posteri, ma noi? Quando ci inchiniamo al pubblico? Non nelle biografie. Nemmeno nei diari. “È venuto un ragazzo. Raccattato per strada. Non si è fermato”. “Tuo nonno se l’è fatto succhiare da W.H. Auden”. “Benjamin Britten si è seduto nudo sul bordo della vasca mentre facevo il bagno”. Perché se non altro, come minimo abbiamo contribuito. Ci siamo resi utili, noi ragazzi d’arte. E anche se ogni tanto spuntiamo in una fotografia, nessuno ricorda chi siamo: manca la didascalia, oppure dice “con un amico”. Ragazze senza nome, ragazzi innominabili, storielle, prestazioni. Il companatico dell’arte»;

4) a Kay (la fittizia direttrice di scena, interpretata dall’attrice reale Ida Marinelli), che fa un monologo sulla paura degli attori e sul fatto che le opere resistono a ogni crisi della cultura: «Opere grassocce, opere magre, opere ridicole, opere purificatrici, opere splendenti, opere orrende – ma opere sempre e comunque. Opere, opere, opere. Il vizio dell’arte».

 

 

Certo concludere la pièce con un breve inno all’incancellabile, irresistibile, eterno «vizio dell’arte» che riempie di vita il teatro le dà una certa rotondità, un senso di compiutezza e di chiusura. È pur vero però che la pièce nella pièce, Il giorno di Calibano, scava con ironia impietosa nel legame tra il demiurgo (Prospero/Auden) e il suo schiavo (Calibano/Stuart), un legame fatto di dominio culturale (del borghese intellettuale che compra) e mercificazione del corpo (del proletario ignorante che si vende), un legame che chiama in causa anche il delicatissimo rapporto tra creatività e sessualità. Fosse conclusivo, il monologo di Stuart spezzerebbe la chiusura del testo, ma gli darebbe un tratto sanguigno e rivendicativo che il monologo compiaciuto di Kay stempera nella solita bolla borghese dell’arte che salva tutto. E i corpi che hanno servito alla causa dell’arte, usati come carburanti per la creatività degli artisti?

 

 

Fatta salva questa considerazione, tornando al presente dello spettacolo in scena al Teatro dell’Elfo Puccini, colpisce quanto Bruni e Frongia entrino in sintonia con il testo, con i suoi battere e i suoi levare, le sue accelerazioni e le due decelerazioni, il suo stare nella finzione e il suo uscirne fuori per metterla in questione, facendo convivere il patos poetico dell’interpretazione con la quotidianità prosaica degli interpreti, la spettrale sala prove londinese e la sporca e disordinata stanza di Auden. I piani si sovrappongono continuamente, ma la loro scansione resta nitidissima. Tutto è riempito dalla loquacità inarrestabile di Auden, cui Bruni presta una recitazione nervosa, istrionica e venata di malinconia, e dalla cortesia distante di Britten, cui il grandissimo Elio De Capitani, lavorando in sottrazione e su sfumature vocali e gestuali appena percettibili, regala un’aura di fragilità e allo stesso tempo di ingannevolezza. Marinelli, come Ariel, tesse attorno alle loro vicissitudini la trama della sua magia (il teatro, ça va sans dire), aiutata dalle bellissime musiche di Matteo de Mojana eseguite dal vivo da Roberto Antonio Dibitonto. Delizioso anche Petranca nel dare corpo e voce alle velleità dell’attore Donald, emblema di chi fa fatica a trovare un posto nel mondo (dello spettacolo o in quello reale: di certo lo spettacolo è il mondo reale di Bennett, Auden e Britten) e vive nel terrore di restarne fuori («C’è sempre qualcuno che rimane fuori, in un modo o nell’altro» dice l’autore fittizio Neil alla fine).

 

 

Foto di Laila Pozzo

 

Milano    Teatro Elfo Puccini       10 maggio – 2 giugno