Le Ciel de Nantes: Chiara Mastroianni debutta nella pièce autobiografica di Christophe Honoré

Can I have your autograph
He said to the fat blonde actress
You know I’ve seen every movie you’ve been in
From Paths of Pain to Jewels of Glory
And when you kissed Robert Mitchum
Gee but I thought you’d never catch him
Over the hill right now
And you’re looking for love

New Age, The Velvet Underground

 

 

Parigino d’adozione, nato nel 1970 a Rostrenen, in Bretagna, Christophe Honoré da molti anni intendeva realizzare, senza riuscirci, un film sulla propria famiglia, numerosa, proletaria, sregolata. Un senso di tradimento lo inseguiva per non aver mai parlato di loro, nei suoi film per lo più d’ambientazione borghese. Fino a definirsi un transfuge de classe, un “disertore di classe”. Un altro tipo di tradimento lo assaliva durante i casting in cui tentava di sostituirli su grande schermo. Sceneggiatore prolifico, scrittore, anche per ragazzi, drammaturgo, regista d’opera, nel 2021 — oltre a dirigere per il cinema Guermantes, liberamente ispirato a Proust, con la troupe della Comédie Française — ha pubblicato il testo Le ciel de Nantes (edizioni Le solitaires intempestifs) per poter mettere finalmente in scena se stesso e dialogare con una parte del suo debordante clan familiare. Una produzione del Théâtre Vidy-Lausanne, lo spettacolo ha iniziato la sua tournée a novembre 2021 a Lione ed è andato in scena fino al 3 aprile 2022, all’Odéon – Théâtre de l’Europe di Parigi. A parte lalter ego dellautore (Youssuf Abi-Ayad) e sua madre, Marie-Do (interpretata dal fratello del regista, Julien Honoré), i personaggi in scena sono tutti morti: Odette, detta Kiki (Marlène Saldana), la nonna adorata dal regista, e i due figli nati dal primo matrimonio con Maurice Thimaux: Roger (Stéphane Roger), traumatizzato dalla guerra in Algeria e suicida nel 1990, e Jacques (Jean-Charles Clichet), colpito da una rapida malattia. Quando Thimaux saltò su una mina durante la Seconda guerra, Odette si risposò presto, perché incinta, col poliziotto di origini catalane Domenico Puig (Harrison Arévalo), da cui avrà otto figli, diventando la donna più tradita e picchiata di Nantes”.

 

 

Una famiglia segnata da morti violente e dipendenze, omertosa e vitalissima, difficile da ignorare. Ma i drammi si stemperano nella scrittura leggera di Honoré, che resuscita un gruppo “fuori fase”, dai modi vivaci e schietti, e lo raduna dentro un cinema dal fascino decadente (disegnato da Mathieu Lorry-Dupuy), replica del luogo più formativo per l’ex ragazzo di provincia innamorato della pellicola. Le poltrone occupano circa la metà della scena, lasciando spazio anche a un vecchio microfono ad asta. Uno schermo bianco cala alle spalle degli attori, proiettando a sua volta immagini a volte registrate, a volte trasmesse in diretta dal regista e colte con una videocamera nel backstage, al di là delle porte oscillanti del locale: i postumi fumosi e alcolici di un pranzo domenicale, le confessioni tra uomini in un bagno pubblico. Tra una partita tra FC Nantes e Paris Saint Germain commentata in tv e i ricordi dei cugini italiani, a volte francese, spagnolo e italiano si rincorrono e confondono. Una mise en abîme anche linguistica, che restituisce la complessità di una autofiction dura da scrivere. Lo provano anche i provini del film mai realizzato (con Vincent Lacoste, Marina Foïs, Ludivine Sagnier tra gli altri), che scatenano la curiosità dei familiari coinvolti. 

 

 

In questo ritorno alle radici, adunata di fantasmi, rievocazione tragicomica di traumi, violenze, isolamenti, Honoré dedica uno spazio particolare al ricordo del padre, morto in un incidente quando lui era quindicenne. Il fatto è preceduto da una specie di presagio, vissuto proprio da lui, in auto col genitore, che nel testo è detto intersigne. Dal dizionario Larousse: “il legame misterioso che si stabilisce tra due fenomeni apparentemente non correlati, uno dei quali è considerato segno telepatico dell’altro”. L’evento apre allautore la strada della libertà e del cinema, “autorizzandolo” a essere se stesso e perseguire la sua carriera di regista. Ma dà anche il via alla propria liberazione sessuale, il cui primo passo è la separazione fisica da un ambiente omofobico. A seguire, la ricerca e l’ancoraggio a un pantheon di figure che lo hanno accompagnato nella consapevolezza. Lo ha fatto nel 2018, nello spettacolo Les Idoles, dedicato, tra gli altri, a Serge Daney, Cyril Collard e Bernard-Marie Koltés. Tutti legati dalla morte per Aids. Anche Jacques Demy, che fa parte di quel gruppo di eroi personali, proprio a Nantes realizzò Lola e il musical operaio Una camera in città (un giovanissimo Christophe chiedeva a Odette di portarlo nei luoghi in cui erano stati girati). A Odette, che smise di parlare al nipote dopo aver saputo della sua omosessualità dichiarata, spetta una delle scene chiave di Le Ciel de Nantes, costruito di momenti musicali che sono detonatori di memorie fisiche e psichiche: per lautore, ballare con lei da ragazzino davanti alla tv le coreografie disco di Spacer di Sheila & B Devotion era già un venir fuori inequivocabile, un patto non esplicitato eppure stretto. Il titolo Le ciel de Nantes è rubato da un brano di Barbara, già protagonista di un film di Mathieu Amalric. Il nonno macho, tombeur che canta canzoni alla Julio Iglesias, isolato dalla famiglia come un capro espiatorio, cerca la catarsi a passi di flamenco, vestendo addirittura il giovane nipote da torero, come a riconoscergli a posteriori il suo ruolo artistico. Perché per Honoré “i morti sono i nostri eredi, e non il contrario”.

 

 

In questo parapiglia di voci grosse e scenate, minacce e recriminazioni, bottiglie che spillano sangue e bare di legno grezzo lanciate sul palco, il settimo personaggio in scena si fa notare per la sua luminosa fragilità: è la zia Claudie (“era la fata della mia infanzia, immaginavo che potesse esaudire tutti i miei desiderie”, scrive lautore). Trascurata dai familiari, ricoverata in ospedale psichiatrico, sottoposta a elettrochoc e terapie farmacologiche fuori controllo, Claudie tentò più volte il suicidio, fino a quello fatale. Per Chiara Mastroianni, un DNA e un cognome incisi nella storia del cinema, è il debutto a teatro dopo oltre cinquanta film, in un ruolo giocato con discrezione e ferma dolcezza. L’attrice qui si rivela sempre più pienamente il doppio di Honoré, il suo corpo d’elezione: sei film girati insieme (quasi come Pedro Almodóvar e Pénelope Cruz), da Les chansons d’amour del 2007 fino al più recente L’hotel degli amori smarriti (premio miglior attrice in Un certain regard a Cannes 2019). Un album inciso con Benjamin Biolay (Home, 2004), già interprete in Les Chansons d’Amour e in Les Bien-Aimés, qui dà un tocco incantevole a New Age di The Velvet Underground e a Vanishing Act di Lou Reed. Sono due momenti decisivi e di grazia assoluta. Se è vero che “il passato non passa”, la répétition teatrale sprigiona qualcosa tra il regolamento di conti e il tentativo imperfetto di riconciliazione. Forse non salva, ma dà l’illusione e la forza di poter scuotere la malattia, to shake the disease. Verso l’inizio di una nuova era. 

 

 

(tutte le immagini sono di Jean-Louis Fernandez)