Un work in progress che muta forma ogni sera. Uno studio che si costruisce attraverso il confronto con gli spettatori, le loro reazioni e (perché no) voglia, sensazioni e umore del mattatore. Non è una novità per Marco Paolini, da un po’ di tempo i suoi spettacoli nascono in scena: in principio sono una serie di approcci, di abbozzi, di tentativi; ma arriva un momento in cui prendono forma definitiva e in cui tutto ciò che prima appariva disordinato e caotico assume la compostezza esaustiva di un quadro d’autore. Così ancora non è per Numero Primo – Studio per un nuovo Album che, allo stato attuale, si presenta come una composizione di bozzetti slegati, in attesa di un filo che li unisca e li faccia diventare un’opera. Ciononostante, e pur avvertiti fin dal titolo della situazione di incompiutezza, non si resta delusi da visione e ascolto. Non è merito esclusivo del Marco Paolini attore, le cui doti affabulatorie e mimiche sono patrimonio riconosciuto del teatro italiano ormai da qualche anno; già la sceneggiatura di questo esperimento regala infatti momenti intensi e divertenti, suggestioni immaginifiche e, soprattutto, rivela un Paolini diverso rispetto al passato recente, che era fatto soprattutto di opere di denuncia dal forte valore civile oltre che artistico (Il racconto del Vajont che lo ha fatto conoscere al grande pubblico; ma anche I-TIGI racconto per Ustica, Parlamento chimico, Il sergente, U238). Se andiamo più in là nel percorso a ritroso dentro la produzione dell’attore veneto, fino agli “Album” confezionati per il Teatro Settimo di Torino, o addirittura ai testi degli anni Settanta, scopriamo infatti come i primi episodi di una lunga biografia collettiva che attraversa la storia italiana dagli anni Cinquanta ai nostri giorni, raccontata in dialetto o nella lingua madre, siano costruiti su piccole storie personali, talvolta ampiamente autobiografiche, che solo tangenzialmente, oppure dopo lungo e accidentato percorso, acquistano respiro universale. Per cui lo studio per Numero Primo si inserisce perfettamente in una vicenda professionale che, restando coerente a se stessa, torna a farsi intima, almeno in parte.
Perché poi in effetti Paolini si libera, in questa occasione, dell’alter ego Nicola a cui ha affidato buona parte delle narrazioni precedenti (Adriatico,Tiri in porta, Liberi tutti, Stazioni di transito) e sceglie come protagonista Ettore Achille, che sin dal nome – sorta di ossimoro mitologico – porta dentro di sé il germe dell’epica insieme a quello del nonsense. E infatti il nostro si muove dentro un futuro distopico in cui la neve è soltanto sintetica, ci sono scuole intitolate a Steve Jobs (a quello ci arriveremo, comunque) e Venezia ha visto realizzarsi i peggiori incubi immaginati dalla peggior politica. Anche all’interno di una trama che procede per strappi e folgorazioni, le cose più belle arrivano dalla descrizione di una paternità surrogata, inattesa ma dolcissima, che fa diventare Ettore Achille genitore di Numero Primo, bimbo iperdotato affidatogli dopo misteriosa telefonata, e rinvenuto nel grembo artificiale delle tazze che compongono una giostra per piccini, a Gardaland, parco divertimenti situato alle porte di Verona. Il modo in cui Paolini rappresenta il sentimento che lo invade nel diventare padre è straordinario, il punto più alto di un racconto che poi prende la forma di un’avventura dal taglio moderno e multietnico (la società a più razze, più o meno integrate; telecamere stile Grande Fratello piazzate in classe che consentono il controllo costante sebbene impreciso degli alunni), ma con ritorni a paure ataviche (la diffusione dei pidocchi, su tutti), che rinvia più alle fantasmagoriche trovate in salsa paesana di Stefano Benni o a alle visioni regionali di Tullio Avoledo che non alle proiezioni metafisiche di Ray Bradbury, Richard Matheson o Philip K. Dick. È una specie di inferno quello che infine Paolini colloca presso Porto Marghera: un mondo senza umanità, che ha perso le coordinate del vivere civile, probabilmente destinato a soccombere sotto l’attacco di una natura impazzita. Ma anche in questo luogo assurdo, tra Dante e Hieronymus Bosch, brilla la luce di un bambino (se sia davvero tale, poco importa) che con la sua presenza sembra levare il marcio per ridare bellezza, così come in precedenza rispondeva alle prevaricazioni offrendo amicizia, serenità, energia positiva. Echi messianici, spunti di attualità lancinante, scenari che trasmettono pruriti di fastidio o bagliori di calda speranza; ma tutto è ancora irrisolto o, forse, è un ponte lanciato sul futuro con volontà apotropaica: la prefigurazione di un incubo, il sogno cattivo che non si vorrebbe mai avverato, per non doverlo affrontare, per non doverlo combattere.
Fino al 10 dicembre al Piccolo Teatro Strehler di Milano.