Sono tante le narrazioni che si possono fare del Festival di Cannes: quella radiosa dei “cinéphiles”, che approdano sulla Croisette e applaudono entusiasti ogni volta che vedono la sigla del festival; quella degli “industry”, che sfogliano cataloghi, comprano e vendono, fanno affari (quest’anno pare un po’ meno) e vedono pezzi di film; quella della “press”, che insegue i film e un posto in sala senza nemmeno più le proiezioni anticipate (a meno di non essere nella casta degli “eletti”); quella dei turisti, che allungano il collo da dietro le transenne per vedere le star sulla montée des marches; quella dei sales internazionali, che ormai sono i veri selezionatori dei festival e dettano l’agenda ai direttori smistando i film delle loro “line up”. E poi c’è la narrazione che il Festival di Cannes, giunto al suo 75mo anniversario, ha deciso di fare di sé, che ovviamente è la più attendibile, dal momento che in fin dei conti ognuno è padrone del suo destino… Ed è la narrazione di un Festival/Versailles, sfavillante e vanitoso, chiuso nella sua dimensione elitaria e un po’ astratta e aperto alla bramosa ammirazione di chi ci ruota attorno, lo guarda a distanza più o meno ravvicinata, tenuto a bada da un apparato di valletti/body guard che, gentili e sorridenti, frugano nelle tue borse e governano i tuoi passi. Ecco, l’impressione che si ha a Cannes è ormai quella di essere imbucati in una festa in cui non si era attesi, figuranti di un evento che ci riguarda ma non ci guarda, non ritiene di aver più bisogno di noi perché si svolge in un empireo dove tutto accade per superna determinazione. Ti è concesso di esserci, ma non ti è concesso di essere, se non nella folla che fa massa nella prospettiva dell’evento globale, come fossi la figura di un crowd simulation in CGI…
Lo stesso appiattimento della stampa nella tempistica di programmazione del pubblico (l’eliminazione delle proiezioni anticipate, la privazione di strumenti di approfondimento come i pressbook, sostanzialmente non forniti nemmeno nel casellario digitale, la collocazione della cerimonia di premiazione in un assurdo prime time televisivo…), lungi dall’essere un colpo alla “casta” dei critici, che comunque i film li vede e li commenta, è piuttosto la dimostrazione che il Festival non sente più il bisogno di confrontarsi con l’esterno, di dialogare con chi può esprimere un “parere esperto”, di rispecchiarsi in un pubblico che sia concreto, vero, senziente e non appiattito in quella massa uniforme e indifferenziata che scorre sulla Croisette, composta dai tanti pubblici che prendono parte alla kermesse. Succede così che, al culmine di una dozzina di giorni di Cinema in tutti i suoi stati (soprattutto nel Certain Regard e nella Quinzaine des Réalisateurs), arrivi un palmarès che è la conseguenza esatta di questa narrazione che il Festival di Cannes del ventiduesimo anno del terzo millennio ha infine deciso di offrire di sé. La Palma d’Oro alle geometrie sociali raccontate da Ruben Östlund in Triangle of Sadness è in fondo la fotografia di questa kermesse in astrazione: una crociera esclusiva su uno yacht di VIP che naufragano su un’isola deserta e si ritrovano soli con la loro esclusività… L’aspetto interessante è che l’imprevedibilità di questa seconda Palma d’Oro al simpatico e a suo modo intrigante regista svedese, oltre a evocare scheletri nell’armadio di Cannes (leggi le due inutilissime Palme a Bille August…), ha anche l’effetto di dimostrare quanto le dinamiche del Festival siano davvero scollate dalla realtà di ciò che accade nel corso della manifestazione, nei mille rivoli di giudizi, emozioni, sensazioni, umori dei festivaliers. È come con la temperatura delle previsioni del tempo, c’è quella reale e quella percepita: la Palma d’Oro a Triangle of Sadness risponde alla temperatura percepita dal Festival, ma non a quella reale stabilita dai film del Concorso. Il quale, se per quasi unanime ammissione non è stato tra i migliori e ha spesso tradito le aspettative, aveva comunque espresso ben altre urgenze, trovato altre priorità, discusso di un altro cinema, meno geometrico, meno ammiccante, più sincero nella sua teoria di partenza. Perché, se è vero che è mancato il film capace di spiccare sugli altri, è anche vero che non sono mancati gli innamoramenti trasversali per opere come Armageddon Time di James Gray o Les Amandiers di Valeria Bruni Tedeschi. Un Festival più consapevole avrebbe lavorato sulle distonie corporee dell’ennesima distopia cronenberghiana Crimes of the Future, o magari sul Pacifiction di Albert Serra, configurazione della fine sociale del mondo perfettamente contigua a quella di Östlund, ma infinitamente più ampia e profonda sia concettualmente che filmicamente. E invece le ragioni di tutti questi film sono state rigorosamente ignorate dal palmarès del Festival, che ha premiato un cinema più uniforme e conforme alle esigenze di un dire più diretto e meno astratto, più formale e meno personale.
E allora il Premio del 75mo anniversario è andato ai fratelli dei Dardenne Tori e Lokita invece che a Frère et Soeur di Desplechin, il Grand Prix è andato ex aequo alla sincerità un po’ formattata di Close di Lukas Dhont invece che a quella ben più urgente e profonda di Armageddon Time, e alla sospensione vacante di Stars at Noon di Claire Denis (vera vaga delusione del Festival) invece che a quella più flagrante di Pacifiction. È tutto sommato pleonastico premiare per la terza volta (su quattro film presentati a Cannes) Park Chan-wook per la regia di Decision to Leave, film “di regia” quant’altri mai, invece, per esempio, della flagranza sorprendente della Bruni Tedeschi. Il Prix du Jury allo stabile Le otto montagne di Charlotte Vandermeersch e Felix Van Groeningen tradisce la fluidità coscienziale del Martone di Nostalgia, mentre l’ex aequo con Jerzy Skolimowski per EO, pur non emendabile, poteva magari anche guardare in direzione di quell’altro film sulle prospettive esistenziali del dolore che è Crimes of the Future di Cronenberg… Nulla da recriminare, va detto, sui premi più tecnici: Tarik Saleh per la sceneggiatura di Boy from Heaven, Zar Aamir Ebrahimi e Song Kang-ho rispettivamente migliore attrice e miglior attore per Holy Spider di Ali Abbasi e Broker di Hirokazu Kore-eda.