Un reporter che negli ultimi anni ha realizzato alcune tra le inchieste più scottanti nel nostro Paese; una materia, la mafia, che taluni considerano chissà perché inertizzata, ma che in realtà è incandescente; una lettura scenica che l’11 novembre 2017 ha debuttato in veste musicata, arricchendosi rispetto a una precedente versione molto più essenziale e spoglia. Sono ingredienti che rendono speciale lo spettacolo Gli anni della peste, che il giornalista Fabrizio Gatti ha tratto dal suo romanzo omonimo, pubblicato nel 2013 per Rizzoli. Sulle musiche di Radiomondo Ensemble (Maurizio Camardi a sax e direzione; Riccardo Bertuzzi alle chitarre; Alberto Roveroni alle percussioni), la voce narrante è quella dello stesso autore, che debuttò al Giornale di Indro Montanelli nel 1987, passò al Corriere della Sera nel 1991, per approdare infine, nel 2004, a L’Espresso dove lavora. È un virtuoso del giornalismo undercover, Gatti. Ha firmato, tra le altre, l’epocale inchiesta sull’immigrazione illegale dall’Africa all’Europa, per cui è stato quattro anni sotto copertura tra Sahara, Lampedusa e le campagne italiane, dove la manodopera senza diritti viene sfruttata a vantaggio di un’industria alimentare che paga prezzi da fame: il materiale raccolto confluì poi nel volume Bilal. Viaggiare, lavorare, morire da clandestini, uscito nel 2007. Ed è opera sua una sontuosa indagine sul caporalato agricolo ed edilizio. Nel 2013 ha pubblicato il sopra citato Gli anni della peste, riassunto in forma di romanzo di anni di inchieste sulla mafia nel Nord, condotte a partire dai primi Novanta nelle periferie delle grandi città (quella milanese, soprattutto), in quel “fortino” in cui sembrava essere confinata, e dalla quale si è invece diffusa, contagiando anch altri tessuti sociali. L’opera torna a distanza di quattro anni in una forma diversa, invitandoci a un nuovo indispensabile viaggio: per questo abbiamo intervistato Gatti, che ha deciso di portarla in giro personalmente per l’Italia in questa nuova confezione.
Fabrizio: le inchieste sotto copertura, suo marchio di fabbrica, nacquero dunque al Corriere della Sera…
Sono il frutto di una grande scuola, di cui sono debitore a Ettore Botti, Giangiacomo Schiavi e Paolo Chiarelli, i quali seguivano, con diverse responsabilità, la cronaca del quotidiano e introdussero me, appena arrivato, a un nuovo modo di lavorare.
Negli USA il giornalismo d’inchiesta è la norma, da noi lo fanno in pochi; e forse proprio L’Espresso rappresenta un’eccezione. Perché?
Farlo in un quotidiano oggi è molto più difficile che in passato, perché manca un elemento fondamentale: il tempo. Quando realizzai il primo servizio che descrivo ne Gli anni della peste, mi fu detto: “Hai un mese a disposizione”. E si trattava di un mese al netto di altri lavori, quindi senza dovermi occupare di nulla che non fosse quell’incarico; tempi del genere sono oggi impensabili. Quanto a L’Espresso, è un settimanale che ha nel proprio DNA il modus del giornalismo d’inchiesta: in tredici anni che ci lavoro, non ho mai visto venir meno lo spirito di fondo, la passione civile che lo anima, che gli fa combattere battaglie che altri non affrontano.
Nel raccontare la mafia, lei registra precise differenze tra gli anni ’90 e oggi. Quali?
Che allora certi personaggi erano soltanto dentro i “fortini” criminali, mentre ora stanno alla luce del sole, occupando anche ruoli istituzionali. Nello spettacolo parlo di parecchi di loro, delle loro storie: non cito praticamente mai i nomi, ma credo che molti di essi alla fine siano riconoscibili. La mafia è una palla al piede del nostro Paese, ed è peggio di vent’anni fa, perché ha contagiato settori della società che se ne consideravano immuni.
Se tutti siamo contagiati, come se ne esce?
Sono convinto che la guerra contro la mafia si potesse vincere in quegli anni ’90 in cui ci furono le stragi, attraverso un cambiamento di mentalità – che però non c’è stato – e con la volontà di affrontare il problema alla radice; oggi, per contro, la coscienza del Paese è debole, segnata dall’accettazione tacita di un compromesso, quasi fosse una realtà dovuta e non un male da estirpare.
Siamo senza speranza?
Ci salveranno i bambini. Risiede in loro, non contaminati, la possibilità di un riscatto, come dico anche nella parte finale dello show.
A proposito di bambini: la fiducia che ripone in essi non pare estemporanea, visto che ha dedicato loro anche un paio di scritti, Viky che voleva andare a scuola (2003) e L’eco della frottola: il lungo viaggio di una piccola notizia (2010). Pensa che il riscatto arrivi sempre da loro?
È così. In particolare, la vicenda di Vicky, che aveva sette anni quando si trovò catapultata in una realtà che non era la sua, è un esempio di grande riscatto individuale e familiare attraverso la scuola. È un racconto che ho scritto per affermare che le cose possono essere cambiate, se ci si impegna per farlo.
Pensa che il giornalismo possa cambiare il mondo?
Io racconto, non voglio cambiare il mondo. Ma è mio dovere raccontare correttamente, affinché qualcuno possa farlo, se vuole, se ne ha la forza.
Pure Bilal arrivò a suo tempo in teatro. L’impostazione è la stessa di allora?
No. In Bilal la messa in scena era più strutturata, la lettura scenica corredata da immagini, filmati, musica. Qui sono solo sul palco, giusto con la musica a scandire i momenti drammatici e quelli più leggeri. È una veste nuova; e pure una sfida difficile, perché in questo caso sono le parole a dover costruire le immagini, a dover lasciare il segno. D’altronde le armi di un giornalista sono le parole, con cui narrare storie che abbiano un senso condiviso. Dunque è una bella sfida.