Ho un ricordo nitido legato al momento in cui si è radicalmente trasformata la mia percezione di Francesco De Gregori. Era la primavera del 2005 e stavo guardando una puntata di Top of the Pops versione italiana (che non durò molto, ma tenne botta per qualche stagione). In mezzo a quel flusso fluorescente di esibizioni zuccherose con il pubblico che, come richiedeva il formato, si muoveva osteggiando un artificioso entusiasmo, comparve lui, il Principe, la presenza che potevo percepire come più distante in assoluto da quel mondo. Lo ricordavo ancora in concerto, un paio di anni prima, nella tournée di Il fischio del vapore, in coppia con Giovanna Marini: ritrosissimo, ispido, deciso a tutti i costi a travisare qualsiasi linea melodica alla sua maniera, quasi desiderasse che non ci fosse un coro a squarciagola ad accompagnarlo. Ero giovane e rimasi interdetto: è sempre così, mi spiegarono. Due anni dopo allora cosa ci faceva a Top of the Pops a cantare, con un piglio peraltro piuttosto giocoso, Vai in Africa, Celestino? Scriveva un percorso a rovescio: verso il pubblico, verso una nuova popolarità, che l’avrebbe portato addirittura ad apparire pacificato rispetto all’abbraccio del pubblico, persino a cantare La donna cannone nei bis senza senso di colpa?
Il De Gregori degli ultimi 15 anni è l’opposto di tanti altri cantautori rimasti intrappolati nel giro cieco della celebrazione del loro passato che fa impallidire il loro presente. Dopo il 2000 sono usciti dischi pregevoli: Amore nel pomeriggio, Pezzi, Calypsos, Sulla strada che contiene almeno un paio di capolavori. Ci sono stati tour epocali (Vivavoce, nella serena fierezza della celebrazione), un sentito omaggio a Dylan, partecipazioni televisive generose, libri. I Sessanta di De Gregori sono stati saldi nel presente, coerenti nell’attitudine alla scrittura, bonificati da qualsiasi pregiudizio sul passato. In questa selezione di schede dal mio libro Unadimille. 1000 canzoni italiane dal 2000 a oggi, raccontate cerco di spiegare perché l’ultimo De Gregori è cruciale per comprenderne la statura complessiva, sperando in un riascolto alternativo alle innumerevoli playlist celebrative d’obbligo, da Rimmel a La leva calcistica (che, naturalmente, non è un peccato riascoltare per la millesima volta). Perché la festa per i suoi settant’anni sia solo l’attesa di tutto il nuovo che deve ancora dare: con queste premesse, perché concentrarci solo su quel che è stato?
Ma tu guarda il mio cuore mangiato
Cardiologia di Francesco De Gregori, di Calypsos, Caravan, 2006
Calypsos è un De Gregori inatteso. Esce neanche un anno dopo un album ruvido, energico e molto “civile” come Pezzi e raccoglie brani più sommessi e sfuggenti, esperimenti, tentativi, cose mai più riprese. Avanzi? B-Side? Esperimenti per un album di altra indole poi accantonato? Chissà. Quel che è certo è che l’apertura, per alcuni, è una delle più belle e imprendibili canzoni d’amore del nostro, tutta accordi pieni e regolari, senza dinamica, crescendo o diminuendo, come un flusso continuo e regolare, un elettrocardiogramma, appunto: Cardiologia. Una canzone di teoria sull’amore, “che si gioca per vincere / e non si gioca per partecipare”; sulle sistole e diastole, su ciò che fa pompare il sangue (“e compra rose a dozzine / e fa curvare i pianeti”) e poi rilasciarlo; sulla certezza che giocare vuole dire sanguinare di nascosto ma che poi “chi vince è perduto / con una chiave ed un numero in mano / tutta la notte a aspettare un saluto / e a pensare ‘Ti amo!’”. Sull’amore indecente, l’amore che ha sempre fame, l’amore maiale di cui “non si butta niente”. Ironicamente raffreddata dal titolo fisiologico, una parabola sull’amore come “fenomeno”, astratta ma in cui è naturale rispecchiare il proprio tempo amoroso. (di Francesco De Gregori / © Serraglio/SM Publ.)
Ognuno inciampa sul suo cammino
Vai in Africa, Celestino di Francesco De Gregori, da Pezzi, Caravan/Sony, 2005
Pezzi ritrova Francesco De Gregori dopo l’importante deviazione folk de Il fischio del vapore in una condizione di grande vitalità creativa. Rispetto al predecessore Amore nel pomeriggio, è un album ruvido, diretto, che realizza il sogno ricercato a puntate da tempo di un cantautorato rock energico e pastoso, per come lo può intendere Dylan (o Cohen, che risuona dentro La testa nel secchio), ma che anche dimostra un’inedita generosità nel guardare alle viltà del mondo e dell’Italia senza ermetismi, con rammarico furente (Numeri da scaricare, Tempo reale, Il panorama di Betlemme). Il titolo Pezzi arriva da Vai in Africa, Celestino, rock vibrante e spavaldo che De Gregori va a promuovere come singolo in varie trasmissioni tv (quando vederlo in tv era diventato da anni un evento raro). La struttura fissa è organizzata su un lungo elenco di anafore che triturano la realtà storica e i suoi simboli più diversi (Pasqua, Natale, il Corano, i Borbone…) chiuso sempre da un “invito motivazionale” a Celestino V, il Papa del “gran rifiuto” al pontificato, a “girare i tacchi” e andare in Africa, come per non contaminarsi più con una situazione sempre più malsana o per ripartire dove c’è idealmente la possibilità di una speranza. «Al frenetico reportage di una realtà contemporanea in frantumi segue l’esortazione ad aprire gli occhi e inseguire l’ultima frontiera possibile, un altro luogo dell’anima da cui, forse, ripartire» (Fabretti, Arcana, 2011). (di Francesco De Gregori / © Serraglio/SM Publ.)
Sono qui con le mie buste della spesa
Guarda che non sono io di Francesco De Gregori, da Sulla strada, Caravan, 2012
Il punto di separazione tra l’artista e la persona, sublimato e trasposto nell’artificio di una canzone su un Francesco De Gregori fermato per strada da uno sconosciuto che “vuole sapere qualcosa di una vecchia canzone”, al quale smorzare le aspettative, dicendogli: “Guarda che non sono io quello che stai cercando”, “l’angelo a piedi nudi, o il diavolo in bottiglia / il vagabondo sul vagone / la pace fra gli ulivi, e la rivoluzione”. L’ultimo, ennesimo, colpo di fioretto del Principe: la sintesi di una semantica dell’essere schivo e dello sfuggire alla fama intesa in senso “commerciale”, che ha attraversato un’intera carriera, fino al punto di intrecciare il piano privato con quello artistico. Ma anche il rifiuto eterno di essere strumento di qualcos’altro: la politica, i sentimenti, i simboli. Invece che in una fredda presa di distanza, questo gesto di distacco è condensato in una ballata sommessa, dolce, dall’armonia che si riallaccia al passato: un’altra tipica canzone pianistica di De Gregori capace di nascondere le corde del cuore nel punto giusto per cui chi ascolta abbia il desiderio di andarsela a cercare. In tempi di esposizione della celebrità come diktat inevitabile, è un elogio della strada opposta, cristallizzata da una bellissima immagine di prosaica virtù: “Ed io gli dico ‘Scusami però non so di cosa stai parlando / sono qui con le mie buste della spesa / lo vedi, sto scappando / se credi di conoscermi / non è un problema mio’”. (di Francesco De Gregori / © Serraglio)
Un uomo ferito alla schiena
ll panorama di Betlemme di Francesco De Gregori, da Pezzi, Caravan/Sony, 2005
L’albero del pane rubato, il cielo sipario di fiamme, “un uomo disteso per terra / in una terra di frontiera”: De Gregori attraversa la Terra Santa impressionato da immagini di disfatta dai contorni assoluti, come una sequenza-archetipo. Oltre il gioco delle posizioni da prendere, dalla crisi israeliano-palestinese ricava la sagoma dell’orrore di ogni conflitto, in dettagli putridi e mortuari (l’acqua del fiume che si fa nera, le mosche). Al tempo di un rock dylaniano in minore, la canzone si arroventa nel dialogo tra la vittima sul punto di morire e il suo Signore: “E dice: “Non era la mia intenzione / rubare l’albero del pane / ma non sono quel tipo di uomo / che si arrende senza sparare”. (di Francesco De Gregori / © Serraglio/SM Publ.)
Dalla stessa parte
Sempre e per sempre di Francesco De Gregori, da Amore nel pomeriggio, Columbia, 2001
Una ballata pianoforte, voce e archi leggeri. Come De Gregori ne ha fatte tante, certo. Ma in questo caso, tra le più amate di sempre. È una dichiarazione di presenza, pura e diretta; esserci nonostante attorno sia tutto un “andare, perdersi e tornare / e perdersi ancora”, uno sfidare le dicerie, cambiare faccia a seconda se piove o c’è il sole. Una semplicità così disarmante e naturale che il brano sembra quasi non avere struttura, fluire leggero come pensieri che si frappongono, ai quali ribadire l’unica cosa di cui tener conto: “Il vero amore può / nascondersi / confondersi / ma non può perdersi mai / sempre e per sempre dalla stessa parte mi troverai”. Rifatta anche da Fiorella Mannoia e da Fausto Leali. (di Francesco De Gregori / © Serraglio)
Se ritornasse l’acqua alla montagna
Volavola di Francesco De Gregori, da Per brevità chiamato artista, Caravan, 2008
Come per riannodare i fili con Il fischio del vapore, De Gregori “nasconde” nel cuore di Per brevità chiamato artista una piccola gemma folk. Citazione del più famoso tradizionale abruzzese, Volavola sembra piombare da chissà quale tempo e invece è un inedito al 100%, un valzer sottile e popolare che invoca il volo di un pavone e di un cardellino per invitare l’amata a cercare dentro il cuore di lui un sassolino d’oro. Sigilla un rapporto creativo con Ambrogio Sparagna, che ne arrangia i rigogliosi archi sull’album per poi riscriverla per organetto e corale in Vola vola vola – Canti popolari e canzoni, progetto folk con Maria Nazionale e gli Amarcanto a cui De Gregori partecipa con entusiasmo. (di Francesco De Gregori / © Serraglio/SM Publ.)
Qui si fa l’Italia e si muore
Il cuoco di Salò di Francesco De Gregori, da Amore nel pomeriggio, Columbia, 2001
Oggi forse si può parlare con serenità di Il cuoco di Salò come del capolavoro del De Gregori della maturità, ma si tratta di un brano che al tempo della sua uscita è diventata subito la sua canzone più dibattuta di sempre, mistificata, strumentalizzata, usata come merce di scambio a vario titolo per sostenere categorizzazioni che qualcuno da secoli sognava di poter scagliare contro il nostro: De Gregori revisionista, De Gregori antistorico, De Gregori di destra.
Il cuoco di Salò guarda quei diciotto mesi con gli occhi non di un repubblichino ma di un “impiegato” della Repubblica, «un personaggio minore, le cui annotazioni sono stridenti note a margine rispetto al dramma centrale perché ‘anche un cuoco può essere utile in una bufera, anche in mezzo a un naufragio si deve mangiare’. La Storia, dunque, scorre alle sue spalle risultando, ai suoi occhi, quasi irrilevante» (Fabretti, Arcana, 2011). Incantato dal via vai di “donne bellissime (…) frusciare come mazzi di rose”, il cuoco non vede Salò, ma soltanto il suo ruolo nella condizione complessiva, e pur percependo che qualcosa di grosso accade al di là dei monti, la sua visione è quella di chi, nonostante tutto, cerca un suo posto: “C’è chi dice che sono banditi / e chi dice Americani / io mi chiedo che faccia faranno / a trovarmi in cucina / e se vorranno qualcosa per cena”.
Eppure la Storia è lì che sgretola questa effimera temporanea gloria velocemente, e il cuoco ne percepisce la pulsione distruttiva: “Qui si fa l’Italia e si muore / dalla parte sbagliata / in una grande giornata si muore / in una bella giornata di sole”. La citazione garibaldina, mutata e capovolta nell’o che diventa e, affiancata a quel “dalla parte sbagliata”, è stata la fonte principale del dissidio – con domande del genere “quale sarebbe la parte sbagliata?” – ma il verso, ha spiegato lo stesso De Gregori, non è un giudizio terzo ma un pensiero espresso dagli stessi protagonisti della vicenda, un’ipotesi di disfatta molto probabile che, chi si arruolava nella Repubblica sociale, doveva in qualche modo già dare per scontato. Come è un gioco di rimandi – ambiguo, certo, ma che è stato ben strumentalizzato – il fatto che il cuoco usi le parole di Fischia il vento per parlare dei giovani repubblichini, in un’immagine di straordinaria efficacia: “Quindicenni sbranati dalla primavera / scarpe rotte che pure li tocca di andare”.
Superata dunque la forzatura ideologica, accettato che Il cuoco di Salò non si può certamente dire un brano revisionista ma piuttosto un brano che prevede una lettura della Storia che contempla altri racconti, resta una canzone che rende epico e spiazzante un tema che scorre come un canale sotterraneo nella canzone degregoriana e che qui, in qualche modo, supera ogni argine: l’atrocità di ogni guerra, l’abilità di ogni conflitto di livellare intenzioni e motivazioni in un unico processo di annichilimento generale, che questo racconto rende palpabile utilizzando un “magistrale fool” (Vecchioni) che serve a fare da testimone e documento di come una generazione di “giovani forze” sia andata a disintegrarsi contro uno scopo assurdo, ma che per loro doveva essere una motivazione sufficientemente valida.
Questa riflessione non sarebbe così dolente se non ci fosse l’arrangiamento cucito su misura da Franco Battiato a portare il brano su un piano di grande potenza evocativa, che passa dall’intimismo malinconico e finale della strofa a un ritornello epico e antico, con una tromba in lontananza a sancire un alzabandiera funereo. O la resa. (di Francesco De Gregori/ © Serraglio/SM Publ.)
Vincenzo Rossini è autore del blog musicale Unadimille