Occhi che video può non essere solo il titolo di uno dei lavori più noti di Daniele Segre (dedicato alla fondatrice del Museo Nazionale del Cinema di Torino Maria Adriana Prolo e risalente al 1989), ma ampliarsi e diventare “titolo” di tutta la filmografia del regista torinese (ma era nato a Alessandria nel 1952) scomparso lo scorso 4 febbraio all’età di 71 anni. Quelli di Segre, a partire dalla metà degli anni Settanta, sono stati occhi che hanno visto, guardato, osservato, ascoltato, filmato una moltitudine di persone e di ambienti sociali per comporre un ampio ritratto della società torinese e italiana dando voce a singoli individui e a gruppi nel loro impegno sociale e politico, nella loro militanza (anche come tifosi di una squadra di calcio), addentrandosi in questioni ancora oggi di bruciante attualità come quelle delle morti sul lavoro, dell’appartenenza sindacale, delle lotte operaie, della condivisione di percorsi radicati nella Storia e da mantenere vivi. Cinema del reale, quello di Segre, quasi tutto inscritto nel documentario che rappresenta il segno di una lunga filmografia costituita di corto, medio e lungo metraggi, pur aprendosi a esperimenti di finzione slabbrata, come fu Manila Paloma Blanca, presentato alla Mostra di Venezia del 1992 e interpretato da Carlo Colnaghi (che “portò se stesso” interpretando un attore che conobbe la reclusione in ospedali psichiatrici e che con Segre era già stato protagonista di Tempo di riposo l’anno precedente e al quale il cineasta dedicherà nel 2014 Il viaggio di Carlo, a quindici anni dalla morte dell’attore avvenuta nel 1999) e da Lou Castel.
Quelli di Daniele Segre (che nel 1981 fondò a Torino la società di produzione I Cammelli e nel 1989 l’omonima Scuola Video di Documentazione Sociale, durata fino al 1997 e la cui esperienza è raccontata nel volume A occhio nudo curato da Sandra Lischi e Pucci Piazza e pubblicato nel 1997 da Lindau) sono film che esistono in un “corpo a corpo” tra l’autore e la materia trattata, dove imprescindibile è la scelta di lavorare sui primi piani di chi entra nelle inquadrature, essendo i volti veri e propri spazi da indagare per chi aveva avviato la sua carriera con Perché droga (1976, co-regia di Franco Barbero) terminandola nel 2021 con Tonino De Bernardi – Un tempo, un incontro e passando per tanti ritratti potenti nella loro essenziale struttura formale – uno su tutti, Luciana Castellina, comunista (2012). Questi e altri esempi, fra i tanti, caratterizzano una rigorosa attività portata avanti da Segre che, come è stato ricordato in questi giorni, non era una persona facile: “aspra”, “scorbutica”, esigente senza compromessi, sfuggente e poco disponibile a interviste (chi scrive ricorda, ormai lontana nel tempo, una conversazione “impossibile” con lui che non produsse un testo). Il suo cinema era invece d’impatto immediato, profondo, empatico (pur se talvolta intriso di un effetto nostalgico poco convincente, come nel caso del “contorno” aggiunto alle bellissime testimonianze degli uomini e delle donne che in Paréven furmíghi, realizzato nel 1997, raccontarono la stra-ordinaria esperienza della costruzione di un teatro cooperativa del popolo nel 1950 a Cavriago, paese comunista dell’Emilia-Romagna), dai suoi film non si riusciva a staccare gli occhi in un gioco di specchi tra gli occhi di Segre che vedevano e filmavano e quelli dei testimoni o della cronaca che a loro volta vedevano, ricordavano, agivano.
Si pensi ai suoi film che hanno segnato un periodo, e a uno sopra tutti, Vite di ballatoio, che quest’anno compie quarant’anni, è del 1984 e frutto di una ricerca di oltre due anni per documentare dall’interno la quotidianità di travestiti e transessuali giunti dal Sud Italia a Torino (vinse il Gabbiano d’oro al festival Anteprima per il cinema indipendente di Bellaria). Ma come si possono dimenticare Testadura (1983), primo lungometraggio di finzione di Segre che descrive un problematico microcosmo giovanile, o Ragazzi di stadio (1980), sulle curve degli ultras di Juventus e Torino (e l’omonimo volume del 1979 promosso dal Comune di Torino, pubblicato da Mazzotta e con le fotografie di Segre ne costituì un magnifico “prologo”), cui ha fatto seguito nel 2018 Ragazzi di stadio, quarant’anni dopo (visibile su Rai Play, l’unico suo film rintracciabile, mentre bisognerebbe rendere nuovamente visibili almeno le sue opere più rilevanti, e diffonderle; in libreria erano invece usciti in libro più dvd Luciana Castellina, comunista e il cofanetto Vivere e morire di lavoro contenente quattro testi: Dinamite, 1994, Asuba de su serbatoiu, 2000-2001, Morti di lavoro, 2008, Sic Fiat Italia, 2011), o Nome di battaglia donna (2016), ovvero “il racconto corale delle donne che hanno lottato per la libertà”. E non si può non ricordare Sarabanda finale, episodio del film collettivo Provvisorio quasi d’amore (1988), che radunava alcuni dei cineasti emergenti di quel decennio (gli altri segmenti furono firmati da Bruno Bigoni, Enrico Ghezzi, Francesca Marciano, Roberta Mazzoni, Silvio Soldini, Kiko Stella).