Nel 2007 Rodrigo Plá, regista al debutto sul grande schermo, vinse a Venezia il Leone del Futuro con il bellissimo La zona, che narrava l’incursione di un terzetto di ladruncoli in un quartiere residenziale superprotetto di Città del Messico, approfittando di un temporaneo black-out. Pure l’ultima opera di Plá, Un mostro dalle mille teste, è passato per il Lido nel 2015 (era il film inaugurale della sezione Orizzonti), ma ci ha poi messo oltre un anno per trovare la strada dei cinema italiani, nei quali è arrivato il 3 novembre. Ad accompagnarlo in un primo giro di presentazioni in sale d’essai del nostro territorio è lo stesso 48enne cineasta, nato in Uruguay ma messicano d’adozione: quando era bambino i suoi genitori scelsero infatti l’esilio di fronte alla dittatura che si impossessò del loro Paese. Con la sua opera, magnificamente interpretata da Jana Raluy e Sebastian Aguirre, Plà racconta la colpevole (e corrotta) inefficienza della burocrazia attraverso la storia di Sonia Bonet, una donna che intraprende una lotta senza quartiere contro la compagnia assicurativa che nega il trattamento sanitario al marito malato di cancro. Abbiamo incontrato Rodrigo Plá durante una tappa del suo tour promozionale e gli abbiamo chiesto di mettere in relazione la vicenda con quella narrata nel film d’esordio: “Se c’è una somiglianza con La zona – argomenta Plà – è nell’assenza dello Stato e di un legame tra i cittadini e gli enti. Anche in questo caso entro con la macchina da presa nell’intimità di un personaggio che sbaglia: Sonia è infatti una donna disperata e fragile che va contro i suoi stessi valori per conseguire un obiettivo che ritiene legittimo”.
Il suo film giunge soltanto ora in Italia…
È un fenomeno che si ripete a varie latitudini: in Messico il film ha circolato solo in alcuni
festival nazionali ed uscirà in tutto il territorio il 25 novembre. Per quanto concerne l’Italia, sono
felice che il distributore Paolo Minuto abbia deciso di conservare la lingua originale con i
sottotitoli. Quando vidi La zona in italiano, nonostante gli elogi che raccolse, rimasi scontento:
faccio un lavoro intenso con gli attori e ritengo che il doppiaggio, per qualitativo che sia, in
parte lo vanifichi.
C’è chi sottolinea le somiglianze tra il suo film e l’ultimo Ken Loach, quello di Io, Daniel Blake, anche nell’uso di registri ironici. Ma nel suo caso più che di ironia si tratta di humor che vira al grottesco…
Me lo stanno dicendo in molti, del film di Loach: ma non l’ho visto e quindi non posso
confermare. Di sicuro in Un monstruo de mil cabezas c’è humor nero: è un modo per cercare la
giusta distanza con la materia raccontata, che altrimenti rischia di farsi travolgere dal patetico.
Come sempre, ha lavorato con sua moglie Laura Santullo, scrittrice di Montevideo e cosceneggiatrice del film, nonché autrice del thriller psicologico da cui l’opera cinematografica trae spunto. La relazione parentale semplifica le cose, quando si tratta di portare avanti un progetto comune?
Talvolta le complica, in realtà. Ma a conti fatti, condividere la vita porta spesso a far coincidere
gli interessi, e ciò favorisce il confronto.
Il romanzo di Laura fu concepito fin dal principio per diventare una sceneggiatura?
No. Parte dell’ispirazione, per entrambi, viene dal film canadese The Corporation, che analizza la mancanza di etica e di morale di alcuni “mostri corporativi”, in cui la spersonalizzazione è consapevolmente ricercata per disperdere le responsabilità. Il format del romanzo consente di approfondire i personaggi, la loro psicologia; ed è per questo che Laura lo scelse. Il copione è venuto dopo: è molto più asciutto, e si è preso – com’ è giusto che sia – alcune libertà rispetto alla novella. Ma ne ha conservato un aspetto fondamentale: l’utilizzo di molteplici punti di vista, di varie prospettive. Il libro ne contava addirittura venticinque; sullo schermo sono meno, ma
comunque in buon numero. Ed hanno un preciso significato anche in termini di ricerca di un
equilibrio tra le azioni della protagonista – alla quale va inequivocabilmente la nostra simpatia – e il modo in cui le azioni stesse sono viste da chi le subisce, persone che chiaramente non possono provare i medesimi sentimenti.
Sotto il profilo del linguaggio cinematografico ciò si traduce in un uso massiccio del fuori fuoco (con conseguente ridotta profondità di campo) e del fuori campo…
La struttura del film è quella di una ricostruzione a posteriori, in un processo giudiziario.
Contano dunque i ricordi, che non sono mai nitidi, bensí distorti; e questo è reso attraverso il
fuori fuoco. Per quanto concerne il fuori campo, invece, la questione è più complessa e attiene
anche all’uso di simboli.
La prova di Jana Raluy nei panni della protagonista è di intensità straordinaria. Come l’avete scelta?
Jana è una grandissima attrice di teatro, che non aveva mai lavorato al cinema e poco anche in
televisione. Io e mia moglie la vedemmo recitare una decina di anni fa e ne fummo conquistati.
Costruendo la sceneggiatura abbiamo pensato a lei; ma prima di proporle il ruolo siamo tornati a
vederla sul palco: abbiamo avuto la conferma che era la persona giusta per la parte.
Diversamente da altri autori messicani della sua generazione (Cuaròn, González Iñarritu, Del Toro), lei non sembra attratto dalla prospettiva di girare a Hollywood…
Forse perché non sono disposto a sacrificare la liberta creativa di cui godo ora, nemmeno di
fronte alle risorse e alle prospettive offerte dagli Usa. Per ora resisto senza affanni alla
tentazione. D’altronde autori messicani come quelli citati sono molto noti proprio in virtù della
loro attività negli USA, ma ce ne sono di altrettanto bravi, come Carlos Reygadas, Amat
Escalante e altri, che continuano a lavorare nel mio Paese. Dove lo Stato – che pure ha tantissimi
difetti e non riesce a contenere la violenza e la corruzione che devastano la nazione, lasciandoci
in una situazione di profonda incertezza e insicurezza – ha se non altro il merito di sostenere
l’attività cinematografica.
Lo fa senza esercitare controlli né censure, nonostante le aspre critiche che molte opere cinematografiche messicane esprimono proprio nei confronti del Governo e dell’apparato burocratico?
Potrà sembrare strano, ma lo Stato messicano non esercita forme di controllo nei nostri
confronti. Nel cinema la libertà di espressione non è in discussione: forse viene tollerata come
una valvola di sfogo che non rappresenta un reale pericolo, che non ha particolari conseguenze
negative per chi detiene il potere. Non è così, invece, per la stampa: esercitare la libertà di
espressione per i giornalisti – specie se vengono toccati gli interessi della malavita o di certe
realtà pubbliche e private corrotte – è un azzardo che in Messico si paga sovente con la vita.
C’è un nuovo progetto a cui sta lavorando?
Appena torno a casa, comincio a lavorare al nuovo film. Lo girerò negli Stati Uniti, a El Paso. Ma
non mi sto smentendo: si tratta di una produzione messicana. Di “yankee” c’è solo l’ambientazione.