Incontro/intervista con Nadia Ranocchi e David Zamagni di Zapruder filmmakersgroup, collettivo cinematografico che opera in un territorio ibrido tra arti figurative, performative e cinematografiche. Seguaci di Georges Bataille e di un utilizzo sperimentale del cinema in 3D, sono anche i creatori del “cinema da camera” in cui dispositivi e ambienti performativi vengono definiti come cinema incarnato e teatro incorporeo.
Come è nato il vostro interesse per il 3D?
DZ. Sinceramente il 3D non è mai stato nei nostri pensieri, nel 2005 il nostro problema era quello di abbandonare la pellicola perché sentivamo uno strano sapore nostalgico in quelle immagini (mi riferisco ai piccoli formati come il super8 o il 16mm); volevamo affrontare le tecnologie digitali per gestire di persona ogni aspetto del film, senza intermediari, senza sviluppi di pellicola e studios di postproduzione o tecnici superspecializzati e tutto quello che ne segue.La prima volta che ci è tornata sviluppata una pellicola super 8 dalla Svizzera, era il laboratorio più vicino per le Kodachrome, sulla scatola gialla c’era un’etichetta rossa un film d’amateur, ecco in quella etichetta c’era tutto il nostro metodo e la nostra filosofia. Film di amatore, appassionato e indiavolato Vs un film dell’industria del cinema. Questo è il nostro approccio, la tecnica nasce da un bisogno, o meglio da un desiderio di indipendenza, se manca la tecnica la si inventa o la si ruba. La stereoscopia è stata conseguenza di una ricerca su Georges Bataille, volevamo affrontare la sua biografia in modo totalmente inventato ma contemporaneamente volevamo utilizzare tutti gli archetipi del suo discorso filosofico… Per primo l’occhio che attraverso Bataille si trova sempre in una situazione di sovraesposizione e al contempo si sostituisce alla bocca e alle dita diventando occhio tattile ma anche occhio sesso. Come potevamo guardare così? Cosa poteva avere una tale potenza? Avevamo bisogno di dare pesantezza, presenza, ai corpi e la stereoscopia ci sembrava la sola strada possibile per affrontare i nostri fantasmi. L’unico problema è che si trattava di un sistema abbandonato trent’anni prima e richiedeva tecnologie poco accessibili per i nostri budget, quindi abbiamo iniziato a lavorare su prototipi di supporto per due telecamere accoppiate e sincronizzate. Per iniziare abbiamo utilizzato due handycam mini DV della Sony, scelte per il loro peso ridotto e la possibilità di sincronizzarle, abbiamo affiancato le due telecamere su una tavola di legno customizzata in modo che ci permettesse di gestire la distanza interoculare … quando si lavora in stereoscopia il termine più utilizzato e proprio questo: distanza interoculare e parallasse. La cinecamera, anche nel linguaggio da set, richiama sempre lo sguardo umano, i suoi occhi, che qui diventano due obbiettivi affiancati come un binocolo, questa doppia lente la rende incredibilmente antropomorfa; abbiamo abbandonato Polifemo per lo sguardo umano.
NR. Di fatto il primo film stereoscopico che abbiamo mai visto è stato il nostro; come detto sopra non ci interessava la tecnica in se, ma il progetto su George Bataille non poteva che essere in 3D anaglifo, un cortocircuito grandioso. Abbiamo preso informazioni dai manuali di fotografia e ottica, più ne leggevamo e più ci convincevamo di essere sulla strada giusta, almeno concettualmente. Certo la stereoscopia complica parecchio le cose in fase di ripresa, di montaggio, di proiezione. Non parliamo poi delle difficoltà per la sua corretta fruizione, ma i limiti che pone la rendono uno strumento eccezionale per immergersi nel cuore concettuale e fisico della visione stessa. Per esempio lavorare in 3D mostra in maniera semplice e diretta che esiste un accordo tacito tra chi guarda e ciò che viene visto, questo contratto di visione viene esplicitato attraverso la consegna degli occhiali che in un certo senso rappresentano e siglano questo accordo prima ancora di diventare il medium tra te e l’oltre lo schermo.
Voi avete iniziato a lavorarci 10 anni fa, quando nessuno se ne occupava… cosa pensate del successo e dell’interesse che riscuote oggi? Penso a Godard o a Herzog
DZ. Quello della stereoscopia, cinema tattile, il cosiddetto 3D è un territorio in un certo senso vergine, perché non ha una storia cinematografica importante alle spalle, e quasi tutto il cinema 3D contemporaneo non ha fatto altro che sfruttare la forza pirotecnica senza approfondire le dinamiche interne, questo accade perchè a fianco ai grandi sistemi di intrattenimento cinematografico viene a mancare la sperimentazione dei cineasti indipendenti. L’evoluzione del linguaggio cinematografico si regge su questi due opposizioni, incredibilmente legate tra loro. Infatti quando si parla di cinema 3D si pensa ad un genere cinematografico che sta tra l’azione e l’animazione e non a un particolare approccio alla visione. Nell’era digitale sono veramente pochi gli autori che hanno saputo distinguere il 3D dal 2D, lavorando sulla densità dell’aria che nella stereoscopia è presente attorno e dietro le cose filmate. Il cinema stereoscopico sarà sempre inattuale, fuori tempo, troppo avanti e troppo indietro, non riesce a costruirsi una storia, è un eterno giovane. Credo anche che la sua doppiezza istighi sospetto nel pubblico, eppure lo trovo sincero, ed è molto bello visto anche senza gli occhiali. Molti lo vivono come uno strano incantesimo e si aspettano solo cose eccezionali, Questa aspettativa pone tutta la strategia dell’industria del cinema in una direzione chiara, che è quella dell’assuefazione. Come al solito quello che tiene vivo il cinema non è ciò che viene programmato in sala, ma nei festival o nei musei, nelle gallerie, ecc. Godard negli anni ’60 diceva di portare i film fuori dal cinema, fuori dall’imposizione del mercato, o meglio creare un altro mercato… ecco. Il cinema tattile ha il grande pregio di rivelare le distanze, i volumi, l’aria tra gli oggetti; ti permette di filmare non le cose ma lo spazio tra le cose e questa percezione aumentata influenza il decoupage. Secondo Bazin il numero di inquadrature diminuisce progressivamente in funzione del loro realismo, così i film parlati hanno meno inquadrature dei film muti, fino ad ipotizzare film in rilievo, composti da lunghi piani sequenza. Infatti la tattilità dell’immagine ha un effetto potentissimo sulla percezione del tempo, sulla sua durata, perché l’occhio può navigare dentro l’inquadratura e affrontare piani e volumi, quindi il montaggio da 3D a 2D cambia perché cambia la percezione dello spazio e l’idea di cinema muta radicalmente.
Potete raccontarmi il vostro primo incontro con Georges Bataille
NR. Bataille e Nietzsche meritano la definizione di ‘cattivi maestri’, quelli che appena prendi a leggerne gli scritti ti incendiano l’animo con la loro poesia, ti scrollano di dosso il tempo contingente per catapultarti in un presente puro, senza limiti e misura, oltre l’idea della morte verso un assoluto, vivo e bruciante. Credo che la prima volta con Bataille sia avvenuta tramite Il colpevole / L’alleluia. E’ stata un’invasione.
Con Daimon avete realizzato una straordinaria sorta di sceneggiatura filmata per una biografia immaginaria di Georges Bataille. Il lavoro su Bataille è terminato o rimane in sottofondo anche negli altri lavori successivi? JOULE mi sembra contenga al suo interno frequenze ricollegabili a Bataille o sbaglio?
NR. E’ vero, facciamo sempre lo stesso film che ha per protagonista un uomo (nel senso più generale di terrestre) che guarda in alto perché ambisce a tanto ma la sua natura è bassa e i suoi istinti sono primitivi. Nasce così quell’essere vivente che è il protagonista di tutta la nostra produzione: il troppo-umano, sempre in bilico tra il bene e il male, così tragico da fare ridere, grandioso e misero, una contraddizione ambulante che nel suo procedere sulla strada della vita, come burroughs si lascia guidare dai cartelloni stradali, dalle pubblicità o dalle previsioni del tempo. Il nostro eroe è sempre alle prese con un drago da combattere, un daimon appunto, qualcosa che gli si agita dentro e lo travalica. E’ da questa scissione e lotta senza posa che il suo corpo diventa un luogo sacro.
DZ. Bataille è un labirinto da dove è difficile uscire, forse perché a sua volta anche lui è nel labirinto.
NR. In effetti con Daimon oltre a inaugurare una serie di progetti stereoscopici abbiamo iniziato a mettere a punto il cosiddetto montaggio per somme, attraverso il quale vengono poste in relazione scene e sequenze che apparentemente non hanno attinenza tra loro, che mancano di continuità di tempo e di luogo, ma l’assommarsi l’una all’altra dato dal montaggio produce un’apertura che fa entrare l’aria all’interno di un sistema chiuso come la sequenza. Le scene iniziano a circolare, si attraversano, diventano permeabili al prima e al dopo. Questa cosa la chiamiamo presenza per eccesso, che poi è la conseguenza di un’assenza; è infatti dalla mancanza che si genera il movimento psichico, e fisico talvolta, necessario a colmarla. Abbiamo spesso detto che i nostri film sono un invito all’enigma della visione e non a rinchiudersi nel pretesto narrativo per quanto consolatorio esso possa apparire. Ci appelliamo allo spettatore di buona volontà, colui che non si siede e spegne l’interruttore, ma che attivamente partecipa e si mette in gioco senza temere di perdersi nel labirinto.
Quali sono i vostri autori preferiti?
DZ. Il cinema fa riflettere, nel senso che se nessuno lo guarda lui rimane senza soggetto, come uno specchio. Il cinema è chi guarda. Il simbolo cinematografico per eccellenza è Don Chisciotte che attacca i mulini a vento proiettati sullo schermo…scusa mi sono perso in deliri cinematografici. Gli autori che preferiamo sono tutti morti. A.A., S.B., A.H., M.A., P.P.P., C.B., L.V., V.M., O.W.,C.C., J.L. A.T., J.T., M.F., L.B., S.K., E.V.S., S.E…
Qual è il rapporto tra le immagini e il suono? Quando lavorate a un nuovo film l’aspetto visivo prevale su quello sonoro?
NR.Credo che entrambi dobbiamo molto alla nostra infanzia mediamente infelice e solitaria. La paura del buio poi ci ha insegnato che ogni suono o scricchiolio porta con se un racconto e talvolta visioni.
DZ.Il suono è il 50% del film, si dice. Alcuni film nascono da un suono, da una idea di produzione suoni, da un gesto che si espande nello spazio attraverso il suono, dato che è proprio il sonoro l’unico ad uscire veramente dallo schermo e che può prendere da dietro lo spettatore… d’altronde il cinema non è mai stato muto, sempre musicato, persino gli attori del muto non fanno altro che parlare durante le scene. Abbiamo sempre preferito risonorizzare i nostri film, doppiarli per intero, è un lavoro molto complesso che richiede tanto tempo, ALL INCLUSIVE, per esempio, l’abbiamo girato in 16 giorni poi ci sono voluti due mesi per il doppiaggio, abbiamo fatto ripetere agli attori tutte le scene davanti ad uno schermo con le sequenze mute, per registrare i suoni con i microfoni vicinissimi in modo da creare una iper amplificazione, poi una volta raccolti e sincronizzati i suoni, li abbiamo distribuiti nello “spazio” sonoro creando un effetto stereo ampio e iper realistico. Il suono in presa diretta lo abbiamo sempre associato ai lavori più musicali, suono/ immagine incatenati ad una sorta di evento dal vivo, anche se spesso è un set cinematografico.
Ho molto amato I TOPI LASCIANO LA NAVE, film che mostra un conflitto tra reale e finzione, tra documentazione e documentario in una gara di ballo a eliminazione dove la musica è prodotta direttamente dai ballerini. Come è nato quel film?
NR. Il progetto è nato nel 2012, anno della lunga serie horribilis, inaugurato col naufragio della Concordia… questa però è una considerazione fatta a posteriori perchè ‘I topi…’ aveva tutt’altro punto di partenza, o di congiunzione, che è La tempesta di Shakespeare. Infatti nella chiamata a partecipare alla maratona di ballo era esplicitato ai partecipanti che il suono generato dal loro danzare su di un palco completamente microfonato avrebbe evocato l’idea di una nave in balia della tempesta, proprio come lo Stato in cui viviamo che era, come oggi, al collasso economico e politico. Con il loro Yes Sir, I can boogie le coppie di ballerini avrebbero dato un esempio di resistenza fatto di grazia, forza e bellezza, e tutto quel trambusto non poteva che allarmare e allontanare i Topi dalla nave, metafora usata da Shakespeare per indicare quei politici corrotti e inadeguati, sempre pronti a cambiar bandiera per il proprio tornaconto.
DZ. I TOPI LASCIANO LA NAVE è ambientato su un palco di paese e ha il suono di una nave in balia della tempesta. Abbiamo progettato il palco e gli arredi, incontrato le tante scuole di ballo del nostro territorio, la Romagna. Assieme a Franceso Brasini abbiamo studiato il sistema microfonico di amplificazione per quella che doveva essere la ricostruzione sonora di una tempesta, in fine abbiamo scelto il punto di vista e piazzato la telecamera.. poi… una volta innescata la macchina e iniziate le danze non rimaneva che guardare e ascoltare fino alla fine della maratona. Non sapevano assolutamente come sarebbe andata a finire e nemmeno quanto sarebbe durata, potevamo gestire il ritmo della maratona solo attraverso la scaletta musicale che veniva trasmessa in cuffia alle coppie di ballerini. Cambiando brano potevamo aumentare il ritmo, quindi la velocità dei passi sul pavimento o la pressione per i balli più saltellati o strisciati. La Polka per esempio creava un suono simile alla grandine mentre il Walzer faceva scricchiolare il palco come un ponte di legno fragilissimo, con il Boogie si otteneva un ritmo sincopato di vento e pioggia. Questo scollamento tra sonoro e visivo creava un effetto estraniante ed evidenziava un mondo con delle sue regole precise, finalizzate allo svuotamento del palco. Io e Monaldo Moretti (che è il terzo componente di Zapruder filmmakersgroup ndr) ci siamo dati il cambio alla telecamera per tutto il tempo. La regola era di seguire una coppia alla volta per un intero ballo o fino a quando un’altra coppia non intercettava la nostra attenzione. Durante il montaggio del film ci siamo resi conto che la coppia vincitrice era anche quella con più riprese e che tra le altre c’era una coppia mai vista prima e nemmeno iscritta alla maratona, dei clandestini a bordo, che hanno ballato per almeno due ore. Tutti i suoni prodotti sul palco da 30 coppie di ballerini sono stati elaborati live per l’intera durata (4 ore) dai musicisti Francesco Brasini e Mattia Dallara, che hanno restituito al pubblico quello che per noi era il suono di una tempesta.
Dopo la mostra ad Artopia a Milano, quali sono i vostri progetti futuri?
DZ. Vorremmo occuparci solo del presente come i cani.
NR. mentre David si dedica alla toiletta provo a scendere a compromessi con la nostra scaramanzia. Negli ultimi due anni e mezzo ci siamo presi del tempo per lavorare alla sceneggiatura del prossimo lungometraggio di Zapruder, un film scritto con la mediazione e collaborazione di Claudia Castellucci di Socìetas Raffaello Sanzio. Per questo progetto abbiamo creduto bene di confrontarci con il sistema produttivo del cinema italiano e possiamo affermare che i primi tentativi sono stati tanto scoraggianti quanto istruttivi. Ora, dopo mesi di attese, siamo pronti a iniziare questa avventura a partire dalla costruzione dell’arca di alleanze per finanziare il film. Realisticamente passeranno almeno 14 mesi prima di ritrovarci sul set di questo ambizioso e folle gigante, e nel frattempo stiamo lavorando anche su un oggetto non meglio identificato, fatto di una serie di installazioni e schegge filmiche, chiamato Le fatiche di Ercole un progetto tutto muscoli e istinti, per Zeus!
Zapruder Filmmakers Group, Suite (Excerpt) from Collectif Jeune Cinema on Vimeo.