El Camino comincia esattamente dove finiva Breaking Bad, la serie. Jesse Pinkman (Aaron Paul) si è salvato dalla mattanza telecomandata di Todd (Jesse Plemons), suo zio Jack (Michael Bowen) e tutta la gang di suprematisti bianchi. Anzi no: El Camino comincia con un prologo. Su un corso d’acqua dove tutto scorre, Jesse e Mike (Jonathan Banks), il fixer-samurai ucciso a tradimento da Heisenberg, parlano di fughe e nuove vite. «Ma tu, Mike, se potessi ricominciare e avessi la mia età, dove andresti?», «Alaska, è l’ultima frontiera». La corrente è in moto, dal Nuovo Messico al grande nord, ma intanto Jesse deve recuperare i soldi, convincere Robert Forster (altro fixer ma sui generis, decisamente) a farlo sparire dandogli una nuova identità, ingaggiare un duello western, fare i conti con se stesso e quello che resta del proprio passato (praticamente niente, se non i “mauvais souvenirs”, per dirla con Melville) e poi, finalmente, sparire.
Scritto, prodotto, diretto da Vince Gilligan, già showrunner di Breaking Bad, El Camino è un film Netflix che giocoforza non può fare a meno dei rimandi alla serie, e non solo per motivi di continuità della narrazione. Quella di Heisenberg è una mitologia troppo potente perché ci si potesse attendere una storia totalmente autonoma, indipendente dal passato e dai suoi segni. Le cose più deboli, ma inevitabili, sono quindi alcuni flashback non proprio indispensabili al racconto, come quello con Walter White (Bryan Cranston, goffo con in testa un cranio calvo finto) e quello finale con Jane (Krysten Ritter). Gli attori, a sei anni e più di distanza, sono invecchiati, in alcuni casi molto appesantiti (Todd) e cercare di farli passare oggi esattamente per come erano ieri, con gli stessi vestiti (vedi il giubbotto giallo canarino di Jesse nella scena con Jane), li rende stranianti. Tuttavia, al netto di queste concessioni al fandom, El Camino (nome della Chevrolet usata per la fuga) può essere visto tranquillamente come un film noir che ha un suo sviluppo compiuto. Un uomo scappa dal suo passato in un contesto che il genere conosce benissimo, a partire da quello letterario, da Elmore Leonard e James Crumley in giù. Non c’è bisogno che si sappia cosa è successo prima, basta la prova così carnalmente disperata di Aaron Paul per intuire quanto sia stato tremendo e quanto sia vitale fuggire, avendone la possibilità, che nel noir si costruisce attraverso due elementi primari: piombo e soldi. In questo schema così ridotto all’osso, Vince Gilligan inserisce l’elaborazione di due sue ispirazioni più volte dichiarate: Quentin Tarantino e Sergio Leone. I “tarantiniani” diventano spesso noiosi quando del modello ricorrono a mere citazioni, ma nel nostro caso, nella serie, si è andati ben oltre entrando in sintonia con le passioni di Quentin, facendole proprie e almeno in un caso addirittura anticipandole.
In una puntata della quinta stagione di Breaking Bad, Todd, zio Jack e il suo aiutante-killer Kenny (Kevin Rankin) si abbandonano in un luogo topico come il fast food a una dissertazione ammirata degli stunt del film Collo d’acciaio (Hooper, 1978) con Burt Reynolds e diretto da Hal Needham, di Reynolds già storica controfigura e appunto protagonista degli stunt in questione. All’amicizia e collaborazione tra Hal e Burt si è esplicitamente ispirato Tarantino per il rapporto tra Rick Dalton (Leonardo DiCaprio) e Cliff Booth (Brad Pitt) in medium;”C’era una volta… a Hollywood (Once Upon a Time in Hollywood, 2019). Diciamo quindi che Gilligan è un tarantiniano intelligente, non pedante e non stucchevole, che soprattutto di QT recupera il gusto della costruzione di un senso attraverso la frammentazione narrativa, in El Camino evidente fin dal prologo che dà la chiave per interpretare l’epilogo. Icona tarantiniana è poi Robert Forster con il suo magnifico personaggio. Ma anche qui, a parte il rimando scontato per chi ricorda Jackie Brown, il mite Ed venditore di aspirapolvere vive di vita propria persino rispetto all’apparizione nella serie, dove la sua parabola dipendeva comunque da quella di Heisenberg (e, in parte, di Saul Goodman). Molto interessante il contrasto tra l’imperturbabilità di Ed, non indifferente alla sorte di Jesse («non scordarti i soldi»), e tuttavia fermo nei principi dell’hard boiled (la fedeltà al “contratto”), e il crescendo vitalistico disperato di Pinkman, che come tutti gli eroi noir combatte contro due avversari per definizione invincibili, il tempo e il destino, quindi deve correre. Più banale il riferimento allo Spaghetti Western. A parte che ogni noir ambientato sotto il Midwest è un po’ western per definizione (torno a James Crumley, il cui capolavoro “di frontiera” si intitola Bordersnakes, Il confine dell’inganno nella mirabolante edizione italiana tradotta da Sergio Altieri per Mondadori) qui c’è un duello tra calibri (il vetusto .22 contro il più micidiale .45) con focali e angolazioni alla Leone, fotografia satura e formato anamorfico, quello anti televisivo per eccellenza. Infatti El Camino, nonostante la sua destinazione sia il piccolo schermo (via Netflix), è cinema che per respirare avrebbe bisogno di quello grande.