Leggo con colpevole ritardo Lawrence Block (1938), pur conoscendolo come uno dei principali scrittori noir, addirittura hard boiled, degli Stati Uniti. A scatenare la tardiva passione la visione di La preda perfetta di Scott Frank (2014), tratto dall’ottimo romanzo Un’altra notte a Brooklyn (Sellerio, 2013); ma il titolo originale di entrambi, libro e film, è il ben più evocativo A Walk Among the Tombstones, una camminata tra le lapidi. Il “walker” in questione è un personaggio seriale, Matthew Scudder.
Ex poliziotto dal grilletto facile, (ex) alcolizzato, ora detective privato senza licenza. Teatro principale delle sue gesta Hell’s Kithcen (ma lui è del Bronx), il quartiere di Daredevil l’uomo senza paura, storicamente a maggioranza irlandese, quello che in Stato di grazia di Phil Joanou i teppisti dell’Irish Mob chiamano «merdaio». Azzeccata quindi la scelta di Frank, anche produttore esecutivo e sceneggiatore, di fare interpretare Scudder a Liam Neeson, che è di Ballymena, contea di Antrim. Al cinema Scudder è già stato impersonato da Jeff Bridges in quel mezzo capolavoro di Hal Ashby sceneggiato da Oliver Stone che è 8 milioni di modi per morire (1986), dove però gli autori fecero una scelta radicale e senz’altro significativa – spostare la storia da New York a Los Angeles – che però fa perdere aderenza al mondo poetico di Block, profondamente newyorkese. Tra i due film il punto di partenza è tuttavia identico: Matt uccide un pregiudicato mentre è completamente sbronzo, per questo viene costretto al congedo.
Tra i due libri invece passano esattamente dieci anni (8 milioni di modi per morire, in Italia pubblicato da Fanucci, è del 1983) durante i quali Block si concentra soprattutto su uno dei risvolti personali del detective: l’alcolismo. Frank riprende benissimo il tema e scansisce le sequenze di La preda perfetta (che è ambientato nel 1999, a pochi giorni dal nuovo millennio) con i “dodici passi” degli alcolisti anonimi. Da notare come 8 milioni di modi per morire (libro) si concluda con il protagonista che finalmente parla di sé al suo primo incontro con gli AA. Block voleva terminare così la saga dell’ex poliziotto ora detective (una parabola ripresa anche da quel gigante di James Lee Burke per il suo Dave Robicheaux), in quello che è il quinto romanzo. Per fortuna un amico editore lo convinse a proseguire: il capitolo successivo (L’ultimo grido, 1986: mi risulta mai più ripubblicato in Italia dopo la sua uscita con i Gialli Mondadori nel 1990) infatti è non solo il capolavoro della serie per i fan, ma anche per lo stesso autore. Che tipo è, Scudder? Un uomo d’azione restio alla violenza, non per pacifismo, più per pigrizia. Corpulento ma non grasso, precocemente invecchiato anche a causa dell’alcol: sia Bridges che Neeson hanno il fisico del ruolo.
Block insiste parecchio sull’identità, non spiega mai del tutto con chi abbiamo a che fare, sono più che altro i gesti, i comportamenti, a definirlo, oltre a una fitta trama di flashback che si dipana romanzo dopo romanzo (alla fine 17, quattro dei quali mai tradotti in italiano) fino all’ultimo, L’ottavo passo, pubblicato da Sellerio nel 2011 (ancora non l’ho letto ma il titolo è un programma). Scudder condivide con gli altri big dell’hard boiled, Marlowe & C., la stanchezza esistenziale e la convinzione che il peggio non sia ancora passato. Tuttavia l’esperienza di alcolista lo preserva dalle corazze tipiche dei colleghi, quali il cinismo (vero o di facciata) e la misantropia: lui lotta spesso per le cause altrui (si pensi al ragazzino dickensiano di A Walk Among the Tombstones) ma non per misericordia o compassione, perché è giusto così. Block non indugia mai sulla redenzione. L’ex poliziotto di roba da farsi perdonare ne ha parecchia, ma non è il perdono che cerca, né un contrappasso o una penitenza. Lo scrittore non gli chiede nulla e al lettore va bene così. Tra dodici passi e fantasmi di un altroquando perduto, Scudder di storia in storia non fa altro che cercare se stesso, chiunque sia, nel bene e nel male.