L’argentino Julio Velasco, allenatore plurimedagliato di pallavolo in Italia, ha come motto: squadra che vince si cambia. Un principio che sembra infrangere una regola aurea secondo la quale, in un gioco di squadra, la buona riuscita dipende dall’affiatamento tra i componenti dell’équipe che per queste ragioni va confermato. La rottura di questa regola, secondo l’interpretazione di Velasco, dipende invece dal desiderio di vittoria che è più forte dell’affiatamento, cioè dalla motivazione che spinge per l’affermazione. Il dubbio dunque resta legittimo sul nuovo lavoro di Roberto Andò che di nuovo: ambienta il suo film in una Sicilia scettica e tradita; chiama a raccolta la sua squadra di attori già collaudata nel precedente e quindi Servillo, Ficarra e Picone; sul piano più strettamente contenutistico, L’abbaglio prosegue su quella strada già tracciata da La stranezza con il quale si indagava su quei rapporti tra palco e realtà andando ancora per citazioni. Anche questo nuovo film, più direttamente dell’altro ammicca, sotto i panni rossi delle Camicie garibaldine, ad una realtà storica e cronica del nostro presente.
Garibaldi sta per partire da Quarto per porre in esecuzione la sua impresa unificatrice dell’Italia. Arruola tutto l’arruolabile, il colonnello Orsini (Toni Servillo) e Ragusin (Leonardo Maltese) sono delegati all’esame per l’ammissione ad indossare la camicia dei liberatori.
Si presentano tra gli altri Salvatore Tricò (Salvo Ficarra), spiantato e senza arte né parte che vuole solo tornare in Sicilia per sposare la sua Saveria, e Rosario Spitale (Valentino Picone) imbroglioncello e baro alle carte, finto veneziano costretto a fuggire da quella città per debiti e truffe. I due saranno arruolati, ma diserteranno. Seguiranno avventure un po’ picaresche e finiranno tra le suore di un convento. Ma le strade delle truppe di Garibaldi e quelle dei due disperati disertori si incroceranno ancora. Sapranno dimostrare un coraggio inatteso, ma le fondamenta del Paese che nascerà da quell’impresa saranno determinate anche, in una ideale ricostruzione, da quelle che Tricò e Spitale hanno messo in opera. Andò ritorna nella sua Sicilia disillusa e tradita, sottolineando a gran voce questi sentimenti affidati al ritornante Orsini, siciliano di nascita e lontano da quella regione per lavoro militare. Da queste esternazioni trae origine il senso del film, nel quale l’abbaglio è storico, personale, e infonde amarezza e un senso di invincibile solitudine. Andò mette in scena questa amarezza che è di Orsini, ma è condivisibile, ed è per questi motivi che sull’intera vicenda aleggia una patina di disillusione che non si stempera neppure con la vittoria delle idee repubblicane su quelle dittatoriali dei Borboni, già padroni di un sud affamato e ignorante. Premesso questo ci sembra che la riflessione del regista siciliano, che scrive la sceneggiatura con Massimo Gaudioso e Ugo Chiti, si diriga in due direzioni: da una parte si intende indagare sul tema, sempre vivo, di una condizione meridionale mai risolta neppure con l’unità d’Italia. Nulla ha mutato nelle condizioni di vita del sud e da molte parti si solleva il dubbio che quel passaggio storico abbia davvero avvantaggiato il meridione, rimasto sempre poco più di una colonia per i potenti.
Da qui lo scetticismo che Ficarra e Picone incarnano, un atteggiamento distante da ogni illusione che porta alla soluzione solitaria del “si salvi chi può”. E loro lo mettono in pratica: si salvano dalla guerra, in barba a qualsiasi sentimento di solidarietà e si salveranno o quasi nel finale, trovando un posto anche nell’Italia unita. In questo assomigliano ai due antieroi di La grande guerra laddove la codardia, dettata dall’egoismo si trasforma inaspettatamente in un salvifico atto di eroismo. L’altra direzione che il film percorre è quella di una riflessione sul presente che nasca da quelle premesse. E se sono quelle dei due imbroglioncelli le premesse l’Italia di oggi non poteva che essere preda di imbroglioni e imbonitori. L’ambizione di Andò e dei suoi colleghi sceneggiatori è quella di girare un film politico? Dunque ragionare sul presente attraverso la lente storica di quell’impresa cruciale per il futuro del Paese? In parte si ritiene di si, e forse il suo difetto è quello di non spingere in questa direzione, di non assumere definitivamente i panni di un film che allontani l’idea di volerla buttare in commedia quasi farsesca. È in questo desiderio di stemperare che si ha l’impressione che il film non funzioni a dovere: non funzionano bene gli intermezzi divertenti nel paradisiaco convento tra suore pokeriste e ladruncole. Il macchiettismo evidente di quella parte del film non solo lo squilibra, rendendo incerta la direzione della storia (e del film), ma il brano sembra quasi assemblato per dare spazio alla verve comica di Ficarra e Picone, bravi anche senza far ridere. In altre parole, se per una parte il film sembra funzionare con le sue riflessioni post-unitarie (necessariamente con il senno di poi), è anche vero che si sente un po’ di mancanza di coraggio nell’affrontare dal lato giusto un ragionamento storico che trova un suo fondamento non peregrino e peraltro poco affrontato dal cinema italiano recente, a meno che non si guardi a quello di 50 anni fa e passa. È interessante, per quanto non si sa se voluta o del tutto accidentale, l’indiretta citazione del film di Monicelli, perché se in quello i due antieroi avevano un guizzo di coraggio e dignità che faceva ben sperare per il futuro, qui Salvo e Rosario il guizzo lo hanno pure, ma si spegne nell’oggi, in quella svolta di profitto personale che costituisce il male profondo e inguaribile del nostro Paese. In altre parole il film di Monicelli resta speranzoso, quello di Andò è pessimista e dare dello speranzoso a Monicelli ci sembra quasi un’offesa alla sua memoria, ma tant’è a guardare le sorti delle due coppie.
Le fotografie sono di Lia Pasqualino.