Ray Donovan risolve problemi

Ray Donovan è una serie statunitense prodotta dal cable tv network Showtime, ha esordito nel giugno 2013, siamo arrivati alla quinta stagione (tutte disponibili su Netflix) ma una sesta è già stata girata e sarà rilasciata la prossima estate. Ideatrice di Ray Donovan è Ann Biderman, già sceneggiatrice di NYPD, ex moglie di Roger Vadim, produttrice. Los Angeles, oggi: Ray Donovan (Liev Schreiber) è un “fixer”, figura professionale che ha sostituito il detective dell’hard boiled, letteralmente “colui che sistema le cose” e risolve problemi, né sbirro né gangster, un misto di entrambi. Sta in California perché è scappato da South Boston, in gergo Southie, il quartiere irlandese, lo stesso di Mystic River per intenderci. «Un cubo pieno di gente incazzata» lo definisce Susan Sarandon in una puntata della quinta stagione. Southie e le radici irlandesi (antenati che arrivano da Dingle, nel Kerry) sono per Ray e la sua famiglia una sorta di Heimat, non sembre benefico. I parenti, appunto. Un padre, Mickey (Jon Voight), ex pezzo grosso dell’irish mob, 20 anni di galera (da innocente, per una volta) e un talento micidiale nel cercare guai dove ficcare i figli. Due fratelli e un fratellastro: Terry (Eddie Marsan) malato di Parkinson, ex pugile, proprietario di una palestra; Bunchy (Dash Mihok), devastato dalle violenze subite da bambino da un prete, “anoressico sessuale” finché non incontra una luchadora messicana, è l’anello debole della congrega. Infine Darryll (Pooch Hall), black irish, figlio di Mickey e di una donna afroamericana per la quale il gangster abbandonò la mamma di Ray, Terry e Bunch, malata terminale. Ray ha una moglie, Abby (Paula Malcomson), irlandese di Boston pure lei (non è un dettaglio), e due figli adolescenti, Bridget (Kerris Dorsey) e Conor (Devon Bagby). Concludono il quadro dei protagonisti i due soci/complici/assistenti: Lena (Katherine Moennig), efficiente fixer lesbica, e Avi (Steven Bauer), ex agente del Mossad.

 

Lo schema narrativo ricalca quello dei Soprano, con l’irlandesità al posto dell’italianità, il Jameson (bevuto a ettolitri da tutti, a qualunque ora del giorno) al posto delle lasagne e i Dropkick Murphys al posto di Bocelli (non bevono Guinness solo perché il product placement è tutto Heineken). Certo Ray non è come Tony, nel senso che pur agendo ai confini della legge non è un criminale, ma tutti i familiari sono consapevoli della vera fonte dei suoi guadagni. Al servizio nelle prime due stagioni di un avvocato ebreo interpretato da Elliott Gould, sorta di padre putativo, Ray ricatta, picchia, manipola, incastra e nei casi estremi uccide gente per togliere dai guai i clienti, di solito dell’alta società hollywoodiana, attori, produttori, cineasti, sportivi, finanzieri e in qualche caso mafiosi (per colpa di Mickey si scontra con la criminalità organizzata armena e ci mette del suo per finire nei guai con quella russa). Il rapporto con il padre è centrale sempre: la prima serie comincia con Ray che paga un botto di soldi un boss dell’irish mob interpretato da James Woods per fare fuori il vecchio, mentre la quinta finisce con la sua delazione per rimandarlo in galera. In mezzo incomprensioni e rancori che affondano le radici nel passato duro di Southie, quello dal quale il protagonista e i fratelli cercano un po’ inutilmente di affrancarsi. Preferisco personalmente le prime due stagioni, più noir e grezze, quasi sempre sceneggiate da Ann Biderman che poi dalla terza lascerà il ruolo di showrunner a David Hollander. Anche Ray Donovan ha sulla distanza lo stesso problema di altre serie che dovendo allungare il brodo, invece di scegliere la strada della semplificazione, diventano più ambiziose e strutturate. La quinta stagione si gioca addirittura su tre piani temporali e ruota intorno a un lutto familiare che distrugge la vita dei Donovan, in particolare quella di Ray, Bridget e Terry. Meno azione e più risvolti psicologici e mélo. Ma resta, su tutta la storia, l’elaborazione di quel grande tema così tipico della cultura irlandese-americana: non tanto il senso di colpa quanto l’espiazione di peccati originali. Un passato mai risolto i cui fantasmi tornano ad afferrare i personaggi. Ognuno ha il suo “revenant” personale da odiare o amare, a seconda delle situazioni. Un po’ quello che accade in due romanzi polizieschi recenti, entrambi con protagonisti irish-american, Balene bianche di Richard Price e Corruzione di Don Winslow. Poi ci sono i luoghi comuni del caso, sui quali si fa melina tra le pieghe del racconto. Dialogo tra lo psicologo interpretato da C. Thomas Howell (a proposito di fantasmi) e Ray: «genitori divorziati?» «no, siamo cattolici irlandesi. «Casi di alcolismo in famiglia?» «Come ho detto, siamo cattolici irlandesi».