L’esangue gioventù di un esordio in filigrana, un po’ ingiallito come la fotografia che si ostina a incartapecorire nelle tonalità ocra della luce di Marcello Dapporto. Vorresti difenderlo, un film come Gli asteroidi, per la sua sensibilità, per la dolcezza con cui guarda la gioventù svaporata di cui racconta l’eroica disfatta, e anche per la convinzione, persino il coraggio, che ci mette nel praticare un cinema autentico e indifeso. Ma un po’ ti fa pure rabbia, perché subisce troppo i segni del tempo, incarnito com’è nella rassegnazione che racconta senza trovare la forza necessaria a creare quella distanza di sicurezza dallo scenario umano che dipinge. Gli asteroidi galleggia come i suoi protagonisti, giovani di provincia su sfondo padano impolverato sotto la coltre della decennale crisi che ci portiamo dietro, quindi sradicato dal mito economico che occupava le gioventù e riempiva il portafogli (piuttosto che il conto in banca). Pietro e Ivan, i due protagonisti, brancolano nella loro amicizia post diploma, sfuggendo al posto fisso in fabbrica che le famiglie questuano e bruciando le giornate tra noia e stratagemmi più o meno leciti. Come i furti dei candelabri nelle parrocchie locali, che Ivan mette a segno con l’aiuto di Pietro per il laido Ugo (Pippo Delbono, o dell’uso e abuso del fisique du méchant…): cose (non molto) cattive, destinate a offrire al loro connaturato istinto di fuga una exit strategy narrativa tutt’altro che imprevedibile, che spingerà il film su dinamiche un po’ troppo solite per coinvolgerci emotivamente.
Tanto più che di mezzo c’è l’astrazione metaforica del grande asteroide che sta sfiorando la Terra e occupa la mente e lo spirito della terza figura in campo, lo stralunato e stravagante Cosmic, compagno fuori norma delle serate di Pietro e Ivan, coerente con lo schema che chiama la poesia del semplice del villaggio a far quadrare i conti del lirismo. Ecco, insomma, non si capisce perché Germano Maccioni tra tutte le migliori intenzioni che hanno mosso questo suo esordio nel lungo narrativo non abbia scelto una configurazione meno schematica per questo coming of age padano. Le articolazioni del film si muovono bene, le giunture non mancano di agilità, ma sono gli arti ad appesantire il corpo di un’opera che non lascia spazio all’immaginazione nemmeno quando evoca gli spazi siderali attraverso le grandi orecchie dei radar spaziali. Si ha quasi l’impressione (ed è una sensazione che torna spesso recentemente…) di essere di fronte a un film italiano degli anni ’80, di quelli ai quali oggi ripensiamo con un po’ di malinconia per ciò che avrebbero potuto essere e non hanno saputo o potuto essere… Maccioni ha idee e sguardo, non manca di una autentica capacità di osservare e guardare, così come mostra di saper sviluppare la narrazione tra le maglie di un plot troppo schematico per essere coinvolgente. Il coming of age è un genere che necessità di senso critico, distanza spirituale, lucidità adulta e partecipazione infantile, se non lo si vuole appiattire nella malinconia da tempo perduto o nell’euforia da avventura sognata. Gli asteroidi ci prova, ma non è L’ultimo spettacolo. E alla fine resta impigliato nel fatalismo dei suoi protagonisti, nella loro inevitabile sconfitta e nel lirismo un po’ ingenuo di un mondo che ci riconosce come poco adatti a sognare davvero.