La materia umana è questione arcaica, roba di fango e di soffio divino che si tramuta nel comando di uccidere il primogenito: Abramo messo alla prova da Dio, sul quale si apre Beginning, folgorante opera prima di Dea Kulumbegashvili (prodotta da Carlos Reygadas) che ha vinto il 32mo Trieste Film Festival dopo aver lasciato il segno in giro per il mondo (Toronto, San Sebastian dopo la Selection Cannes 2020). La mano di Abrano levata sulla testa di Isacco è quella di cui sta parlando David nel sermone iniziale, quando le bottiglie incendiarie mettono a fuoco la chiesa dei Testimoni di Geova di cui è priore: iconografia di un patriarcato che si proietta sulla gente di una cittadina georgiana nel cuore del Caucaso, prevalenza identitaria ortodossa che vede di malanimo la piccola comunità di Testimoni di Geova radunata attorno a David e a sua moglie Yana. Ma il baricentro del film della Kulumbegashvili non sta nella questione religiosa, che serve alla regista come sfondo per definire uno spazio mentale immanente, orizzontale, che compete lo scarto tra le figure in campo: è Yana la protagonista. Con la sua paura di fronte a un mondo che non la riconosce e con la sottomissione al marito, accettata per arcaico giogo, come Abramo aveva accettato la sottomissione a Dio e Isacco alla lama del padre.
Lo capiamo ben presto, quando il marito la lascia sola, per andare dai capi della confraternita in cerca dei soldi per ricostruire la sua chiesa, e Yana subisce le visite di un altro uomo, un poliziotto, che la sottopone a un colloquio minaccioso, fatto di controllo, potere, allusioni sessuali chiaramente destinate a diventare qualcosa di ancor più concreto. Sul corpo di Yana si gioca lo scarto tra l’identità e la sottomissione, che è poi il fulcro del più arcaico dilemma umano, il punto di transito tra la libertà e l’accettazione. Il prosieguo del suo dramma passa per la sofferenza della violenza, della vergogna, dell’accusa infamante, dell’indifferenza e del perdono, elargito come grazia da un marito che le offre “un nuovo inizio”. Anche Yana lo vuole, quel nuovo inizio, e se lo prende a modo suo: rompendo la linea patriarcale del comando, diventando dio di se stessa, che comanda su Abramo e sacrifica Isacco…Dea Kulumbegashvili ha la potenza nel suo sguardo, una forza fatta di segni antichi su cui costruisce una visione rinnovata della realtà: la sacralità con cui tratta il suo approccio laico alla scena è sorprendente, soprattutto perché viene offerta come un sacrificio al portato dei miti di cui il film si nutre (la Genesi, Euripide, la Cabala). Sin dal titolo Beginning si pone come un film generativo, in cui il senso della tragedia che incombe sulla scena sociale feconda per contrasto la purezza quasi lustrale con cui sospinge Yana nella natura assieme suo figlio Giorgi. È proprio nello scarto tra la quadratura schematica della scena sociale (campi totali a prospettiva netta sin dall’incipit in chiesa) e la spazialità porosa delle scene naturali (veri e propri tableau in cui luce, colori e figure si impastano con resa cromatica quasi impressionistica), che il film trova la forza per lasciare fuori campo la tragedia e nutrirla delle sue conseguenze. La materia umana arcaica, di cui si diceva all’inizio, resta il punto focale di un’opera che si nutre di elementi (il fuoco dell’incipit, l’acqua che segna la tragedia, la terra che assorbe) e che lascia senza fiato nel simbolismo astratto della scena finale, sospesa nel segno patriarcale di un Golem che può tornare argilla.