Esistono un cinema replicato e un cinema replicante. Il primo è quello delle logiche. Ossia quello dei numeri 2 3 4 5 eccetera che crede di celebrare il mito dell’eterno ritorno e poi invece aritmeticamente somma (o moltiplica) gli elementi del numero 1 per soddisfare la coazione cinefila di massa a ripetere. O quello della commedia (all’)italiana che chimicamente aggiunge ogni volta lo stesso reagente a diversi composti (la coppia comica, il coro) immersi in soluzioni di densità variabile (amore, dramma, farsa, camorra, rovello borghese). O quello dei generi (macro o micro): dall’horror di zombi spoliticizzati per cinni scemi al para-musical neo-sarannofamosi per aspiranti tronisti e veline, dall’adattamento del classico in crinoline per lettrici sfiorite alla sviolinata militante per militanti che i soldi per il cinema non ce li hanno. Il secondo è quello delle motivazioni. Cioè. Un cinema che indica e spera di soddisfare un bisogno o un desiderio (o entrambi) ed è frutto dell’agire di una (o più) personalità che assumono un comportamento determinato da competenze e valori personali per innescare una spinta in grado di eliminare lo squilibrio tra una situazione consolidata e una situazione meta desiderata.
Come facilmente si evince confrontando le due descrizioni, il cinema replicato è ontologicamente cazzaro, mentre il cinema replicante è metafisicamente capace. Ne consegue che, p.es.: Michael Bay dovrebbe essere un cazzaro, Christopher Nolan un capace. O che Carlo Vanzina dovrebbe essere un cazzaro e Denis Villeneuve un capace. E meno male che esiste il condizionale. Quindi: Transformers: Dark of the Moon è un film replicato, mentre Blade Runner 2049 è un film replicante (e vorrei anche vedere). Sapete anche voi che non è vero, ma tant’è. E tutta questa pippa è riassumibile così: se il cinema, per sua natura, è commerciale, c’è un cinema commerciale “commerciale” e un cinema commerciale “d’autore”. Non solo. Andate in bagno e provate a fare questo test: se spostate il miscelatore del rubinetto tutto a sinistra sul bollino azzurro, l’acqua esce fredda fredda; se lo spostate tutto a destra su quello rosso, l’acqua esce calda calda.
Problema: se nel 1982 il Blade Runner originale di Ridley Scott era già cinema replicante, il suo numero 2 addì 2017 (dunque già anomalo rispetto alla dimensione generalmente instant connaturata ai sequel) va ascritto al cinema replicato [cazzaro, di manovalanza] o ancora al cinema replicante [capace, d’autore]? Ci viene di nuovo in aiuto il rubinetto del bagno: se posizionate il miscelatore esattamente equidistante tra il bollino bianco e quello rosso, l’acqua esce gradevolmente tiepida. Blade Runner 2049 è un film tiepido. Che non è necessariamente un male. Però.
Facciamo un passo indietro.
Los Angeles, 2019 + 30. La vivibilità della megalopoli è un fuoricampo. Si intuisce che ha prevalso l’ordine. E l’individuo, reale o sintetico, è sempre più solo. L’agente K (Ryan Gosling) è un blade runner di nuova generazione. Un replicante, va da sé. Più affidabile degli umani, ma paradossalmente più fragile, tanto da aver bisogno di test programmati per verificarne la stabilità psicologica e a dover sublimare sesso e sentimenti nella figura di un’amante virtuale, Joi (Ana de Armas). I Nexus del defunto Tyrell sono stati messi fuori legge da quando il nuovo demiurgo della vita sintetica Niander Wallace (Jared Leto) ha creato esseri perfetti senza limiti di durata organica o di subordinazione. Certo, qualcuno della vecchia schiatta è ancora in giro, e va eliminato: come il coltivatore Sapper Morton (Dave Bautista), nella cui serra viene fatta una scoperta (il “miracolo”) che se portata alla luce potrebbe disintegrare ogni pregressa conoscenza sui replicanti e originare caos. Fregandocene del no-spoiler: è lo scheletro di un vecchio Nexus, femmina, morto per le complicazioni conseguenti a un taglio cesareo. Gli ultimi modelli della Tyrell potevano dunque procreare? Joshi (Robin Wright), superiore di K, ha fretta di insabbiare tutto, e gli affibbia l’onere di ritrovare quel “figlio” scomparso ed eliminarlo. Ma facendo visita a Wallace, il cui fine ultimo è proprio quello di creare replicanti in grado di riprodursi, l’agente fa in fretta a scoprire che i resti ritrovati sono quelli di Rachael, compagna del collega Rick Deckard, sparito con lei trent’anni prima; e poiché anche Wallace vuole risalire al “figlio”, ordina alla sua fida subalterna Luv (Sylvia Hoeks) di pedinare K. Durante le sue indagini, l’agente scopre una data incisa su un albero che coincide con quella presente su un cavallino di legno che è alla base di uno dei suoi ricordi d’infanzia impiantati: ma inizia a credere che la sua memoria potrebbe non essere sintetica, e grazie all’analisi della giovane creatrice di ricordi Ana Stelline (Carla Juri), che vive segregata nella realtà virtuale di un laboratorio high tech, si convince che quel ricordo potrebbe appartenere davvero al suo passato. Anche perché ulteriori approfondimenti lo portano a scoprire che Rachael ha dato alla luce non un figlio ma due, gemelli, maschio e femmina, e che solo il primo potrebbe essere sopravvissuto. Sconvolto dall’ipotesi di poter essere frutto dell’unione di Deckard e Rachael, riesce con Joi a rintracciare tra le rovine postapocalittiche di Las Vegas l’ormai anziano (ohibò: nuove luci sul final cut) Deckard (Harrison Ford). Ma ha alle calcagna anche i tirapiedi della Wallace, e lo aspettano nuove sconvolgenti rivelazioni che ne determineranno un ineluttabile destino. Come a dire: fregarsene del no-spoiler va bene, ma fino a un certo punto.
Ora dovrei dirvi che produce Ridley Scott, per dare un imprimatur solenne; che alla sceneggiatura c’è oltre a Michael Green (uno che ha scritto Lanterna Verde, Logan e Alien:Covenant) il redivivo Hampton Fancher, svanito dalla faccia della Terra e dalla scrittura per il cinema dal primo Blade Runner a oggi; che il magico DOP Roger Deakins è praticamente il coregista del film con il genietto neocapolavorista Denis Villeneuve; che la maggior parte delle scenografie in omaggio al modus operandi scottiano di trentacinque anni fa non è digitale; che gli ormai tipici e molesti SBRAAAAAANGGGGG di Hans Zimmer nella colonna sonora hanno la meglio sulla mimesi-Vangelis di Jóhann Jóhannsson (pare che il compositore greco fu Aphrodite’s Child non abbia più alcun interesse per la musica da film: peccato che non abbiano richiamato anche lui). O che il personaggio di Joi, l’invenzione più irritante e inutile, è un aggiornamento del portachiavi di I Love You di Ferreri passato attraverso Her di Spike Jonze con un visore VR (e la sequenza “di sesso” che la riguarda è da lì proprio rubata). O, come hanno fatto i molti recensori a caldo [per intenderci, quelli che due ore dopo la prima visione -magari in anteprima- di un film hanno già pronte ed elaborate ventimila battute di certezze o demolizioni], che andrebbe sottolineata la differenza sostanziale tra una sceneggiatura semplice che apriva a inauditi abissi filosofici (quella del prototipo, va da sé: fingendo di dimenticare che una delle battute più celebri della storia del cinema, quella dell’ho visto cose che voi umani, è stata improvvisata sul set da Rutger Hauer) e un copione inverosimilmente complesso e intorcinato sul piano narrativo (questo, ovviamente) che però non riesce proprio a prendere il volo verso la poesia tragica dell’incertezza identitaria e caccia in bocca a quel cagnaccio di Jared Leto una serie di sentenziosità voglio-ma-non-posso imbarazzanti. O che per essere un film di quasi tre ore che poggia solo su tre vere sequenze d’azione, quella del climax finale sull’acqua è da buttare mentre non lo è il prodigioso scontro tra K e Deckard nel teatro di Las Vegas sulle note di un Elvis Presley olografico in preda a glitch che ha in repertorio anche Can’t Help Falling In Love. E poi stare bene attento a non dirvi che tra le agnizioni a sorpresa c’è il vecchio Gaff (Edward James Olmos) e che in una sequenza sbalorditiva per le possibilità che apre (o aprirà) alla recitazione digitale ritornante rivedrete perfino la Sean Young del 1982. Ops, l’ho detto. E il resto ve lo hanno già detto in parte altri, e vabbè. Potrei continuare per altre mille righe. Ma.
Il fatto è che Blade Runner 2049 è uno di quei film-sfida che pongono la loro inesauribilità programmata alla base del patto sia con lo spettatore (impossibile entrare nella narrazione senza sapere a memoria il prototipo; impossibile goderne appieno senza che l’immaginario ri-messo in scena faccia già parte dell’occhio di chi guarda, esattamente come un impianto mitopoietico; impossibile fruirne come opera autonoma, sebbene destinata in caso di successo a generare sequel ed essere capostipite di una nuova saga con “eletti” Matrix-style [ma non è un extramondo per giovani, e le reazioni del pubblico del 2017 sono state infatti deludenti]) sia con la critica. Le angolazioni dalle quali guardare al film e le possibilità di costruire un discorso su di esso sono infatti ipoteticamente infinite: e a chi si sente subito pronto a obiettare che è così per ogni film, e soprattutto per ogni film importante o che si trascina il fardello di essere sporazione o rilettura di qualcosa di irripetibile (come per esempio il 2010 di Hyams dopo Kubrick o lo Star Wars di J.J. Abrams dopo Lucas) si può solo rispondere dogmaticamente che nel caso del sequel/meta-remake di Villeneuve dopo Scott le possibilità (scientificamente preordinate, e frattali) sono più infinite. Il mero giudizio di valore (vale 6 o 9 su 10? Due o quattro stellette su cinque?) è uno sbrigativo esercizio ludico; e nessuna recensione né saggio ne dirà mai nulla di definitivo. Tanto meno questa. Che non è necessariamente un male. Però.
Torniamo indietro.
Blade Runner 2049 è un film replicato e insieme replicante.
Dove il replicato è color azzurro e il replicante è color rosso.
Con la sua acqua tiepida, ci si possono lavare le mani.
Nella sua acqua tiepida, ci si può immergere.
Prima di aver visto le cose che voi umani e le navi in fiamme al largo dei bastioni di Orione, ricordiamoci però anche sempre di aver visto le migliori menti della nostra generazione trascinarsi per strade di negri all’alba in cerca di droga rabbiosa e la dinamo stellata nel macchinario della notte. Che non significa nulla. Ma. Villeneuve aggira la trappola del confronto: è troppo intelligente (o furbo) per poter pensare anche solo di provare a mettersi sul piano di visione scottiano originale (pur frutto, storiograficamente, di serendipità), o di vampirizzare un immaginario irripetibile. Quindi scarta, cinefilo, di lato: in un’ipotesi di consequenzialità della visione, e ingloba nelle coordinate estetiche di base elementi altri. Tarkovskij, Richard Stanley (più Dust Devil che Hardware), Mamoru Oshii, perfino -inevitabilmente- Nicolas Winding Refn. E sé stesso, nella misura dello spazio e dell’esterno che già fu di Arrival, di cui replica (eh) anche i temi di genitorialità e di venuta al mondo. Sul piano politico, invece, non gli interessa tanto osservare le estreme derive del melting pot dell’originale, quanto indicarne il loro superamento. Il mondo non è più delle persone, e probabilmente non è più reale. È solo un enorme contenitore di simulacri nostalgici o sogni venduti o svenduti alla logica del profitto e a non si sa più chi, in un tempo che non è più quello in cui occorre chiedere “più vita” ma piuttosto “più realtà”. E mentre Harrison Ford sublima esattamente come Sinatra ed Elvis e Marilyn a simbolo eterno di un’epica e un cinema svaniti (e paradossalmente questo suo essere/non essere incarna per una volta la vita, al lavoro, e non la morte), il contemporaneo Ryan Gosling non può che scomparirgli a fianco, progressivamente e subito. Non sono più lacrime nella pioggia, soluzione (in senso chimico) perfetta: solo fiocchi di neve al suolo, destinati a sciogliersi per riasciugarsi e svanire.