Cannes 72 – Dolor y gloria: flashback/flashforward

L’inizio ricorda Volver, con Penelope Cruz in un cimitero che canta pulendo via le foglie da una tomba. Dolor y gloria, ventiduesimo film di Pedro Almodóvar, parte, dunque, da un’immagine nota e riconoscibile di un cinema che incessantemente esalta la vita colorata, malinconica e sfuggente. Mentre le donne al fiume lavano i panni cantando, il piccolo Salvador le osserva e nei suoi occhi prendono giá forma le magnifiche ossessioni che lo accompagneranno nel suo sguardo di adulto. In questo film autobiografico, infatti, il regista spagnolo si racconta e si nasconde al tempo stesso, rappresentando e reinterpretando esperienze, amori, sofferenze e fortuna di un regista a sua volta maturo, stanco e in crisi. Da lungo tempo non scrive e non progetta un film, perso tra gli innumerevoli malanni, le tensioni, le ansie di una quotidianitá ripetitiva e solitaria. Ma il restauro del suo primo successo di gioventú lo catapulta in un’avventura imprevista, facendo riaffiorare alla memoria amici, amori e l’ispirazione che sembrava perduta. Con sguardo sobrio ed elegante, Almodóvar costruisce un meccanismo perfetto e si destreggia con ironia nell’intricata operazione di mescolare i piani e i tempi, tra il presente, l’infanzia e i frammenti sparsi che tornano alla memoria. Non si tratta solo di ripercorrere il passato, ma di astrarlo e capovolgerlo, come in uno specchio, come un melodramma destrutturato, da cercare nei colori, negli arredi, negli oggetti, ma anche negli slittamenti possibili in cui la realtá veste i panni della finzione, e ne moltiplica la potenza, come quando l’amico attore porta a teatro una storia scritta dal regista, ma senza che compaia il suo nome.


E così Salvador recupera l’amicizia dell’amico e ritrova il primo amore perduto, mentre si ripresentano i ricordi legati alla madre, amorevole e dura al tempo stesso. “Non sei stato il figlio che avrei voluto”, gli dice poco prima di morire, e si sente il sapore di un rimpianto da cui sará impossibile affrancarsi. L’autoanalisi diventa cinema: in primo piano l’infinito piacere del racconto e l’esaltazione del caso come motore centrale di ogni accadimento. La vertigine del primo desiderio si ripresenta con l’ebbrezza del suo ripensamento: il ritratto che quand’era bambino gli fece l’imbianchino cui il piccolo Salvador insegnava a scrivere. Ora, esposto in una galleria d’arte come opera di un “pittore popolare anonimo” torna nella vita del Salvador di oggi. Lettera dal passato pronta ad offrire al Salvador di oggi la stessa febbre di un tempo. Sono molti i segnali che Salvador, con le sue emicranie, i dolori, le difficoltá amorevolmente esibite, accoglie con curiositá. Come quando, alla fine, annuncia felice sul letto operatorio di essere tornato a scrivere. Sospesi in questa nuova leggerezza (e si pensa all’inizio in piscina), stiamo assistendo ad un nuovo inizio, un cinema innamorato del cinema e delle storie che si moltiplicano nella vita minuti di tutti i giorni e sotto i nostri occhi.