Credere nelle immagini: Wonka di Paul King

Trattandosi di un prequel e stando a quanto visto, in Wonka di Paul King ci sono tutti gli elementi validi per attendersi un nuovo capitolo cinematografico liberamente ispirato alle avventure del mago del cioccolato inventato da Roal Dahl, protagonista dei celebri racconti La fabbrica di cioccolato del 1964 e Il grande ascensore di cristallo del 1972, già fondamenta per le trasposizioni cinematografiche di Mel Stuart con Gene Wilder (Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato, 1971) e di Tim Burton con Johnny Deep (La fabbrica di cioccolato, 2005). Nel film di King, come in Paddington 2 anche sceneggiatore al fianco di Simon Farnaby, le avventure di Willy Wonka offrono lo spunto per innescare una vicenda del tutto nuova dove le origini del mitico cioccolataio incontrano il volto generoso, sognante e ingenuo di Timothée Chalamet in un musical dal registro comico che, da una parte tradisce il cinismo e la cattiveria che permea le atmosfere dei racconti di Dahl e dall’altra, in modo piuttosto evidente, mira ad entrare nell’immaginario del cinema natalizio puntando su buonismo e dolcezze e allestendo uno scenario molto distante dal realismo in cui erano immersi i due precedenti film. Tra sorprendenti numeri di magia e ricche coreografie, questo prequel dunque ambisce a riscrivere (o semplicemente aggiornare?) un nuovo immaginario cinematografico legato all’iconica figura di Wonka, senza dubbio smarcandosi del tutto dall’operazione condotta da Burton nel 2005, e soltanto in parte ammiccando a quella di Stuart del 1972.
 

 

Basterebbero i primi minuti per rendersene conto: sulle note di Pure imagination (che cantava Gene Wilder e non Johnny Deep), il giovane Willy Wonka, con pochi soldi e molti sogni, a bordo di una nave sta per raggiungere la terra ferma animato dal desiderio di diventare un cioccolatiere. Ci riuscirà ma non senza inciampi e soltanto dopo aver stretto una sodale amicizia con una bambina abbandonata, essere riuscito a liberarsi dalle grinfie della dispotica Miss Sgrubit, perfida lavandaia interpretata da una Olivia Colman imbestialita che tiene sotto scacco altre quattro vittime della sua avidità, aver sconfitto la concorrenza di Slugworth, Prodnose e Fickelgruber, tre cioccolatieri che per mantenere il controllo del cioccolato corrompono il capo della polizia (Keegan-Michael Key) che a sua volta corrompe il prevosto Padre Julius (Rowan Atkinson), ed essere riuscito a collaborare con l’imprevedibile, caparbio, capriccioso e vendicativo Umpa Lumpa (Hugh Grant), un piccolo omino con la pelle arancione e i capelli verdi (proprio come nella versione cinematografica del 1972). Produce David Heyman per la Heyday Films (nello stesso anno di Barbie), ed è anche per la loro esperienza nella serialità cinematografica che ci si deve aspettare una prosecuzione del discorso qui soltanto intavolato. Del resto Wonka si chiude sulle immagini dell’edificazione della fabbrica di cioccolato, in un lieto fine dove la stretta di mano tra il cioccolatiere e l’Umpa Lumpa lascia intendere che da qui in poi il loro sodalizio (gli speciali semi di cacao provengono dall’isola degli Umpa Lumpa) garantirà la sua ascesa nel mondo del cioccolato ma pure proteggerà Willy Wonka dall’avidità del mondo che (stando a Dahl) lo porterà a rinchiudersi nella fabbrica fino a quando deciderà di lasciarla in eredità a Charlie.

 

 

Perché, a ben guardare, il film di King crede nelle immagini e pare davvero intenzionato a costruire un nuovo immaginario cinematografico dando vita ad una nuova saga. Il cioccolato è atteso ma assente: non c’è, non si vede, si sente e si intravede nelle scenografie di Nathan Crowley (le porte che ricordano tavolette di cioccolato). La valigetta di Wonka è una piccola fabbrica di cioccolato che funziona come un proiettore cinematografico e infatti i suoi ricordi sono proiettati, creando un meccanismo ad incastro che suggerisce e mette in scena anziché spiegare, e che per analogia affianca la fabbrica di cioccolato alla fabbrica del cinema. A tal proposito ci sono alcuni passaggi molto efficaci che lavorano con le ombre (la sequenza del guardiano che viene fatto addormentare con un cioccolatino ubriacante), con gli inganni visivi (i sacchi della biancheria), gli ingranaggi (la macchina per lavare e stendere controllata dal cane), le sovrimpressioni di forme e colori (la parte finale della cupola della galleria che richiama la forma di un cioccolatino, gli abiti e i colori dei tre nemici cioccolatieri, la neve come zucchero a velo), chiamando in causa il cinema delle origini e delle attrazioni. Prendiamo il cappello di Willy Wonka: marrone come una tavoletta di cioccolato.

 

 

Lo indossa quasi sempre: ha il cioccolato in testa. Infatti, il getto della fontana di cioccolato sbloccata nel finale coincide con l’immagine del cappello come se tutto quel cioccolato, fino a quel momento rimasto nascosto, uscisse allo scoperto ma soprattutto dalla sua testa di inventore e creatore di sogni. E poi c’è Hugh Grant, che nella seconda parte rappresenta l’attrazione principale e anche l’elemento comico più riuscito del film (insieme alla giraffa). Pur nella sua leggerezza e simpatia, se Wonka fosse un titolo autocelebrativo e conclusivo rappresenterebbe un’occasione persa perché rafforzerebbe il sospetto che il processo di riscrittura, in cui si anestetizza l’ambiguità di quello che è sempre stato un antieroe inquieto e colmo di contraddizioni, sia fine a sé stesso, indebolendo così l’originalità messa in campo. Se invece si tratta di un prequel che dialoga con il film di Mel Stuart, allora è auspicabile attendere un sequel che giustifichi i lati oscuri della personalità di Wonka fino al ricongiungimento con la storia del biglietto d’oro (altra immagine di questo film che allude e rimanda ad altro). Burton inventava ed evocava il passato di Wonka attraverso la figura di un padre dentista che odiava i dolciumi, qui King (per ora, soltanto) fa riferimento alla relazione con una madre che cucina la cioccolata più buona. Appunto, e ora in che direzione si andrà?