La jeuneusse, le souvenir, le récit… Frammenti di un cinema che s’infiamma in se stesso, che nutre la transizione tra l’ipotesi e la forma in un assiduo ritorno all’amore. Arnaud Desplechin possiede l’insistenza del filmare di una nouvelle vague che immagina se stessa: I miei giorni più belli (Trois souvenirs de ma jenuesse) non è il ricordo di una giovinezza, ma la giovinezza del ricordo… Come dire il Cinema, la sua perpetuità cavalcata come un puledro impazzito, la consistenza rigenerativa del filmare il racconto, le récit come fiammeggiante tensione verso il gioco delle vite. Il punto di partenza è sostanzialmente l’idea di un prequel offerto a Comment je me suis disputé… (ma vie sexuelle), un diario di formazione che preceda nell’accensione della tarda adolescenza il disordine adulto. Desplechin nutre la vecchia idea di render conto di quei dieci anni d’amore tra Paul Dedalus e Esther che, all’inizio del suo film del ‘96, erano già giunti a termine.
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E allora ecco che si concede ora le profondità prospettica di questo romanzo di formazione scritto sulla carne viva delle illusioni giovanili, sulla materia incandescente della verità dei sentimenti ancora non complicata dalle torsioni degli adulti. Il Paul Dedalus di Mathieu Amalric, personaggio ritornante di Desplechin (appariva anche in Racconto di Natale, “Ma non era lo stesso, ne ho a disposizione una ventina, è il mio teatro personale, un po’ come faceva Bergman”…), apre e chiude come una parentesi questo romanzo di formazione in tre capitoli. Ma in scena poi c’è sempre il suo omologo adolescente (interpretato dall’esordiente Quentin Dolmaire: una scoperta assoluta), il sedicenne Paul Dedalus, la sua infanzia a Roubaix assieme al fratello mistico e irruento, alla sorella lieve e intransigente e al padre resistente e triste. Gli idealismi assoluti e assurdi (un viaggio in Russia per sostenere la causa degli ebrei), la fiamma dell’amore che si accende per Esther (altra esordiente, bellissima e stupefacente: Lou Roy-Lecollinet) e lo trova ricambiato in maniera altrettanto assoluta, poi gli anni di studi parigini di antropologia e la conseguente lontananza forzata… Bisogna entrarci in questo film per comprenderne la flagranza senza requie, la costante invenzione di una messa in scena che trasuda racconti di esistenze e luoghi e amori soprattutto. Arnaud Desplechin non è mai stato così pienamente se stesso, così puro nella passione febbrile per la messa in scena che travolge lo stesso filmare, travalica la funzione ordinativa del racconto nella sua pulsione caotica. Bisogna riconoscerlo: I miei giorni più belli è quello che si dice un capolavoro.