F.T.A. F*** the Army di Francine Parker, 1972 (credit: Cinema Ritrovato)

F.T.A. (F*** the Army): il film boicottato da Nixon rinasce al Cinema Ritrovato

Più che un ritrovamento, è una vera e propria rinascita, quella di F.T.A. (F*** the Army), il documentario di Francine Parker che il direttore della Cineteca di Bologna, Gian Luca Farinelli, ha presentato in anteprima mondiale alla trentaquattresima edizione di Il Cinema Ritrovato (Bologna, 25-31 agosto 2020). Il ritorno alla luce di questa creativa performance pacifista è stato reso possibile dall’interesse di Jane Fonda, tra le produttrici del film, dall’associazione Hollywood Foreign Press Association e da IndieCollect, realtà impegnata nel recupero, restauro e conservazione del cinema indipendente statunitense, in particolare degli anni ’70, e di un cospicuo fondo di cinema queer, destinata a una collaborazione fruttuosa con la Cineteca di Bologna. In rappresentanza di IndieCollect a Bologna, Amalie R. Rothschild, filmmaker e fotografa, tra le altre cose, dei festival di Woodstock, Newport e dell’Isola di Wight, ha raccontato al pubblico come F.T.A. (F*** the Army) — uscito nel ’72 per una sola settimana a New York, Los Angeles e Chicago – fu letteralmente tolto dalla circolazione, risultando perciò invisibile fino a oggi. E che il primo a mettersi sulle sue tracce è stato il documentarista David Zeiger, che per il suo film Sir! No Sir! (2005) sulla diserzione di massa in Vietnam, chiese di poter usare alcuni frammenti di quella storia rubata alla regista Francine Parker, la quale in seguito gli cedette i diritti del film. Di fatto scomparso, boicottato dall’amministrazione Nixon a causa del suo cristallino, brillante e a tratti anche caustico antimilitarismo, F.T.A. (F*** the Army) è una documentazione estemporanea, freestyle e senza troppe velleità stilistiche del tour organizzato da Jane Fonda e Donald Sutherland nelle basi militari statunitensi nel cosiddetto “anello del Pacifico”: dalle Hawaii a Okinawa, dalle Filippine al Giappone. Il collettivo teatrale, oltre a Fonda e Sutherland, comprendeva i cantanti Len Chandler, Holly Near e Rita Martinson, la poetessa Pamela Donegan, gli attori Michael Alaimo e Paul Mooney.

 

 

Mentre l’acronimo del titolo si presta alle più fantasiose varianti (nei momenti di performance sul palco la compagnia canta “Foxtrot, Tango, Alpha… Free the Army” invece del più prevedibile “fuck”, già ampiamente diffuso tra le truppe) F.T.A. è un intelligente spettacolo di varietà con canzoni, sketch comici e improvvisazioni teatrali. Debitore di M.A.S.H. e una delle probabili fonti d’ispirazione per Hair, si mette al seguito delle tappe del tour. Alterna linguaggi diversi come la musica live (una versione unplugged di We Shall Not Be Moved, era anche di My Ass Is Mine, traducibile in “il mio culo è mio – e decido io come perderlo”, trascinano il pubblico di soldati), siparietti femministi e momenti goliardici come uno scontro bellico raccontato nello stile di commento sportivo del football americano o il dialogo casalingo tra Sutherland e Fonda nei panni del presidente Nixon e della first lady Pat, ma anche di grande effetto drammatico, come il monologo di Sutherland tratto da E Johnny prese il fucile di Dalton Trumbo. Entrambi reduci dalle riprese di Una squillo per l’ispettore Klute, Sutherland e Fonda si misero al servizio della causa, facendosi da parte per lasciare spazio al vero nucleo di senso di F.T.A.: la solidarietà con i GI, i soldati arruolati (“save our soldiers” è uno degli slogan) e il dialogo, l’ascolto, il confronto del collettivo con la loro disillusione, soprattutto della comunità afroamericana, nel realizzare di essere strumentalizzati da una guerra di pura aggressione, classista, razzista e imperialista. E fa una certa impressione, a circa mezzo secolo di distanza, vedere le reazioni del gruppo in visita al museo di Hiroshima o sentir parlare i soldati statunitensi di “mentalità distorta del Midwest”. Spronata da un rappresentante dei Black Workers, Jane Fonda a inizio anni ’70 prese consapevolezza dei modi in cui poter utilizzare la sua notorietà a scopi civili. Lo fece esponendosi sempre in prima persona, denunciando il genocidio dei civili, l’uso di armi chimiche, il paradosso di uccidere per la pace, e affrontando anche il dossieraggio dell’FBI, gli arresti pretestuosi (vitamine scambiate per droghe) e perfino la nomea di nemica della Patria associata all’infausta, notissima foto accanto alla mitragliatrice vietnamita. Un momento di visibilità mediatica spietato, ricordato con rammarico nella sua autobiografia La mia vita finora, a cui rispose anche con il sentimento pro veterani di Tornando a casa, da lei prodotto. 

 

 

Il nome dei Fonda ricorre nell’edizione di Cinema Ritrovato 2020 non solo con la retrospettiva Henry Fonda for President, comprensiva anche del restauro del leggendario Grapes of Wrath (Furore), ma anche con la monografia prodotta da Arte Citizen Jane: l’Amérique selon Fonda di Florence Platerets, che pure riporta alcune scene di F.T.A.. Un medaglione che tenta di riassumere in meno di un’ora una carriera molto eclettica, tra recitazione e produzione, attivismo politico e ricerca di sé, lottando contro le etichette imposte dai media, una su tutte, quella della spensierata icona fitness dipendente dell’era reaganiana. Percorso impervio e coraggioso, sintetizzato dalla risposta a un intervistatore che le chiede per cosa vorrebbe essere ricordata: «come la persona che ha rappresentato il concetto di “non è mai troppo tardi”».