Piggy di Carlota Pereda: la vittima si fa carnefice

Estate. In un piccolo villaggio spagnolo, Sara, adolescente in sovrappeso, conduce una vita schiva tra la macelleria di famiglia, i compiti di scuola e le merendine ingurgitate nel segreto della camera da letto. Un giorno decide di dedicarsi qualche ora di svago presso la piscina naturale del paese, quando viene raggiunta da un terzetto di compagne di classe che la maltrattano costantemente. Derubata del suo zainetto e dei suoi abiti, Sara affronta in costume da bagno la strada verso casa, rendendosi poi conto che un losco individuo ha seviziato e rapito le crudeli bullette. Carlota Pereda rielabora la storia del suo corto Cerdita, vincitore del premio Goya 2019 come Miglior corto di fiction, di cui peraltro qui mantiene lo stesso titolo originale (presentato come evento speciale di Alice nella città alla Festa del cinema di Roma), allungandone il tiro per (ri)creare una storia in cui la vittima prende sempre più consapevolezza di poter diventare carnefice (inconsapevole) a sua volta. Certo, nulla di nuovo se pensiamo ai rape & revenge degli anni Settanta o ad alcuni slasher dove la persona schernita si tramuta in omicida pronto a vendicare i torti del passato (da Venerdì 13 a Non entrate in quella casa, da Terror Train fino al più recente Ma, giusto per fare qualche esempio); Pereda, però, lascia da parte gli omaggi di un certo tipo di orrore (almeno fino all’ultimo, sanguinolento quarto d’ora) per focalizzarsi sulla protagonista, incarnata dalla brava Laura Galán (già volto di punta del corto in origine), la quale gioca in sottrazione, accentuando ancora di più la condizione di adolescente tormentata, morbosamente obesa, sociopatica, con una famiglia incurante alle spalle (specie la madre, interpretata da Carmen Machi con puntuta amoralità) e, cosa coraggiosa, mostrando il suo corpo senza ipocrisie (d’altronde, questo è anche film sulla Body Neutrality), alla stregua dei prodotti da macelleria che vediamo all’inizio, tra teste di maiale, sanguinacci e quarti di bue appesi.

 

 

Sara, un po’ Tracy Turnblad contemporanea alla Grasso è bello (quello di John Waters, naturalmente) ma senza gioia di vivere, un po’ discendente di Martha Dunnstock (ricordate quel piccolo gioiello che è Schegge di follia?) dalla bocca impiastricciata di blu dovuto al lecca-lecca, si divincola per non rimanere imbrigliata al bullismo di tre mean girls (o meglio, di tre wannabe Regina George) dalle vite anoressiche il cui principale divertimento è quello di affibbiarle nomignoli crudeli come «Bacon» e «Pork Belly», grugnendole addosso. Poi, nelle vesti di principe azzurro malato e spietato, ecco comparire un ragazzone taciturno, «lo sconosciuto» (Richard Holmes, qui al secondo film ma già incisivo): dopo aver assistito all’”assalto” in piscina delle tre verso Sara, questi non si fa scrupoli nel rapirle e seviziarle ferocemente per amore della vittima (inizia a seguirla, a regalarle merendine al posto di mazzi di fiori, a eliminare soggetti che le recano disturbo); Sara, a sua volta, resta affascinata da questo individuo: crudele con gli altri e amorevole con lei, biondo, dallo sguardo furioso e glaciale; un modello che va oltre (e per fortuna!) quelli tirati-laccati-filtrati cui ormai siamo abituati a osservare sui social network (che c’importa poi della perfezione?).

 

 

Ed è proprio sul finale che l’amore (impossibile) si fonde con l’orrore della carne: ecco che Perera sguinzaglia il suo immaginario verso il cinema splatter in odore di Tobe Hooper e di Lucio Fulci (ma anche Joe D’Amato), fondendolo con lo strazio del sentimento che, almeno per chi scrive, riporta alla mente il personaggio di Iris (interpretato da Kate Winslet) in L’amore non va in vacanza, ovvero quando quest’ultima elenca i tipi di amore soffermandosi su quello non corrisposto – «il più crudele» – per poi tentare il suicidio sopra i fornelli a gas prima di rinsavire. L’amore è sofferenza, niente di più banale, certo; eppure, a ogni giro, si resta scottati inevitabilmente. Sara lo sa eccome: dopo il bullismo subìto, la fatica nel comunicare il malessere vissuto, l’orrore dei corpi martoriati e il sapore di sangue fresco in bocca, ora porta anche la terribile croce di essere stata amata e di non essere riuscita a governare il proprio istinto per poter ricambiare lo stesso sentimento nutrito. Morte-amore-morte e, per questo, lacerante.