Dopo Emilio D’Alessandro, l’autista personale di Kubrick, Alex Infascelli in Kill Me if You Can (evento speciale della Festa del Cinema di Roma ) si sofferma a raccontarci la storia poco nota di un personaggio ugualmente curioso e avvolto da un’ombra parziale. Si tratta di Raffaele Minichiello, cui è dedicato anche il libro di Pier Luigi Vercesi, Il Marine. Storia di Raffaele Minichiello che l’ha ispirato. il 31 ottobre 1969, quando l’allora ventenne Raffaele, italoamericano di Melito Irpino, emigrato con la famiglia a Seattle sette anni prima, si rende protagonista di una vicenda che lo condizionerà per l’intera sua vita. Reduce dal Vietnam, dove era stato insignito di una medaglia al valore, scopre l’abbandono da parte del padre e la conseguente crisi economica della famiglia. Deciso ad aiutare, chiede il pagamento dei suoi 800 dollari, ma l’esercito degli Stati Uniti gliene ne trattiene 200, scatenando una frustrazione da tempo pronta ad esplodere. Sembra essere questa la motivazione urgente che lo spinse a salire su un aereo della TWA diretto a San Francisco e a dirottarlo in un viaggio di quasi venti ore che lo porterà fino a Roma. Il dirottamento più lungo della storia rappresenta il centro dell’interesse di Infascelli per quest’uomo, che vediamo oggi, nella sua struggente normalità, ripercorrere a parole quei giorni. Sorprende l’assenza di enfasi e lo sguardo semplice di un uomo che ha vissuto esperienze traumatiche fin da giovanissimo (il terremoto in Irpinia, la fuga oltreoceano, lo smarrimento in un paese che lo bullizza e non dimostra di accettarlo mai veramente, la decisione a diciassette anni di arruolarsi nei marines, la guerra in Vietnam con il carico emotivo che comportò).
Stupisce l’assenza di pathos nelle sue parole articolate, anzi, in un susseguirsi di eventi “conseguenti”. E sorprende soprattutto la razionalità di Minichiello, il marine addestrato ad affrontare ogni imprevisto, che compie un gesto tanto eclatante ma non violento, che appare subito come un grido di dissenso, senza un secondo fine se non quello dimostrativo dalla sua stessa protesta. Ad aggiungere ritmo e tensione drammatica, però, intervengono i materiali d’archivio, funzionali ad una partecipazione più coinvolgente da parte dello spettatore, che vive quei momenti col fiato sospeso, tra telegiornali, interviste, dichiarazioni e immagini di repertorio. L’idea che prevale è quella di un film sul film, a partire da un patto tacito tra narratore e regista. Uno di fronte all’altro e ognuno con i propri ”segreti” da svelare o tacere. Perché non si tratta di “dire la verità” ma di tenerla ai margini, dello schermo, della ricostruzione storica, dell’intricato meccanismo di poteri coinvolti in questa storia apparentemente e volutamente lineare. Si tratta di voler tratteggiare con le allusioni e indagare sottilmente il sorriso bonario del protagonista attraverso un gioco di mise en abyme. Il ribaltamento del presupposto di partenza sta nel voler mostrare un dettaglio per indicare una scia di rimandi e motivazioni politiche appena accennate (il dossier su Menichiello secretato dalla Cia, la cittadinanza americana concessa con enfasi ad un dirottatore d’aerei), come una goccia che scompare lasciando visibili solo i cerchi sulla superfcie dell’acqua.