Disamina spietata dell’essenza diabolica e delle dinamiche perverse del matrimonio, melodramma paradossale sul mistery che muove al fondo ogni love story (ognuno uccide ciò che ama, direbbe Wilde), viaggio al termine della notte di un femminile oscuro e insondabile (che cosa e come pensa per davvero una dark lady?), raffinata riscrittura hitchcockiana in salsa (rosso sangue) postmoderna (a partire dall’ec-citazione della doccia), studio illuminante delle manipolazioni reciproche della coppia e della dialettica mai troppo semplice e scontata che s’instaura fra vittima e carnefice (quella fra servo e padrone, direbbe Hegel). L’ultimo film di David Fincher è questo e altro ancora e, fin dalle primissime immagini/parole, racconta, con notevole stratificazione di senso e una forte dimensione teorica, il lato oscuro del (nostro) sguardo, o meglio la condizione perturbante della sua impasse: lo scalpo biondo della donna amata è insieme l’oggetto che seduce e il catalizzatore dell’istinto più violento, nasconde e fa brillare al contempo tutto quello che non conosco dell’altro (e di quello che cela la sua testa: un’ossessione significativa di Fincher, dai tempi di Seven a pensarci bene). L’intenzione del narratore/protagonista si dà subito come dichiarata e vana tentazione della più efferata effrazione (“immagino di aprirle quel cranio perfetto”), che evidentemente non svelerebbe il segreto della mente della compagna più della decisione di smontare un orologio per capire come sia fatto il tempo.
Eppure il film di Fincher, cronaca di una sparizione (da L’avventura di Antonioni a Picnic a Hanging Rock di Weir, solo per citare due esempi felici, un tema cinematografico assai fertile), ci porta con sapienza dentro questo sguardo ambivalente e sotto scacco, e se in un primo momento sembra sposare senza scarto il punto di vista “ingenuo” e in balia degli eventi del protagonista (come nel più classico degli Hitchcock), presto ci rivela non solo i moventi e lo sguardo dell’altro, ma tutte quelle verità nascoste che una vita dedita alla messa in scena della coppia perfetta inevitabilmente comporta, e i paradossi che ne conseguono. E l’esito del film, nel chiederci una sospensione d’incredulità notevole e deviando sensibilmente e imprevedibilmente dalle sue premesse iniziali (tanto da far storcere il naso ad alcuni, e rivelare una tensione quasi all’astrazione di un discorso ormai disinteressato a ogni verosimiglianza), ci obbliga a una riflessione non banale sull’oggi, sulle relazioni umane (a partire dal matrimonio), e sul contesto mediatico e sociale che lavora su queste, e dunque sulla stessa idea d’identità. Ecco che dietro all’amazing Amy, creatura finzionale idealizzata dai genitori della ragazza (è la girl ad essere sparita), che imprigiona la protagonista in una recita esistenziale di cui il marito accetta e asseconda la perversione, c’è una donna esasperata e annichilita dal dover corrispondere sempre a quello che gli altri desiderano o sognano di lei, in cui l’accondiscendenza è solo una maschera violenta e una difesa impenetrabile di una potente frustrazione, pronta ad esplodere con tutto la sua potenza vendicativa e distruttiva, con la precisione maniacale di un serial killer o la dedizione di un sadico scrittore di trame, che gioca a imprigionare i personaggi dentro i suoi stessi meccanismi ossessivi. È spietato Fincher, e molto disilluso, e di questo suo compiacimento crudele e un filo cinico avevamo visto già esiti a loro modo veggenti da Fight Club a The Social Network per sfociare in quel ritratto di un’epoca che è House of cards, e quindi a un certo punto (senza voler svelare i twist che si susseguono incalzanti in questo suo ultimo film) obbliga lo spettatore a un potente e sano disorientamento, e a non capire fino in fondo se sta assistendo a una tragedia o a un lieto fine. Se infatti un tempo l’esito tragico voleva tutti (o la maggior parte dei protagonisti) morti sulle tavole del palcoscenico, e lasciava alla commedia le gioie del matrimonio (o del ri-matrimonio), qui le parole più nefaste e ambigue sono quelle con cui si concludono bene (?) le fiabe: “e vissero per sempre felici e contenti”. Ma con la morale incerta e ribaltata di una fiaba nera, di fronte al quadretto mediatico di una coppia di successo, David Fincher ci riconsegna attoniti e spiazzati alla nostra quotidiana ricerca della felicità, con qualche incertezza in più su quell’idea di grande successo ma di dubbio esito pratico (e simbolico) che si debba fare di tutto per realizzare i propri sogni. Acuto, e tristemente pedagogico.
Matteo Columbo