Lo scenario è fortemente fisico, fatto di neve, orizzonti aperti, lupi affamati che si accaniscono sulle carcasse e, da qualche parte, i soldati sudisti. Siamo nel 1862, in America, nel pieno della Guerra di Secessione e I dannati di cui racconta Roberto Minervini nel suo primo film di finzione (nelle sale italiane in contemporanea col passaggio nel Certain Regard di Cannes77) sono un pugno di soldati nordisti che pattuglia le remote lande dell’Ovest in cerca del nemico. È inverno, il freddo insiste sulle loro coscienze un po’ come i lupi dell’incipit si accaniscono sulla carcassa di una capra. Non è un documentario, ma Minervini sta ugualmente in attesa degli stati interiori dei suoi personaggi, appeso al loro “pounding heart” come un osservatore discreto ma partecipe, ovvero come quel sensibile documentarista che è. La scena è raggelata, poco lo spazio alla ricostruzione storica offerto dalla wilderness del campo di battaglia, giusto le divise blu dei soldati, i fucili, le tende: localizzazione astratta, agganciata simbolicamente alla sospensione di questi uomini così poco eroici nella loro languida attesa di un nemico che evidentemente coltivano dentro più di quanto cerchino fuori.
Figli arruolatisi per senso del dovere, padri che li hanno seguiti per cercare di vegliare su di loro, uomini senza alternative che hanno vestito la divisa per necessità, qualcuno ha fede e prega per la salvezza del corpo e dello spirito, qualcuno vorrebbe mostrare il coraggio che non ha, qualcun altro ha un senso del realismo che tempera il dovere tanto quanto dolore, timori e dubbi. Tutti hanno paura della loro stessa paura, stretti più alla loro vita di quanto siano attaccati al loro orgoglio: l’eroismo sta da un’altra parte, a Minervini interessano questi personaggi che stanno nella loro realtà con una funzione interlocutoria, facendosi domande e cercando risposte nella sfera di quella umana semplicità in cui si muovono. Non siamo distanti dall’approccio documentario dei suoi film precedenti. E non lo si dice certo perché si ritenga strano che questo regista abbia improvvisamente deciso di dismettere gli strumenti filmici di confronto con la vita che ha adottato sinora, ma per rimarcare come Minervini segue una sua linea costruendo ancora una volta uno scenario soffice, partecipe, empatico, in cui indaga la qualità dell’uomo, le sue sospensioni esistenziali.
I dannati si rivolge a una guerra lontana come fosse la scena primaria dell’umanità, la traccia offerta dalla Storia a una ridefinizione in chiave simbolica del rapporto con l’attualità dell’America coltivato sinora da Roberto Minervini, quel Grande Paese le cui umane macerie ha descritto in Stop the Pounding Heart, Louisiana e Che fare quando il mondo è in fiamme?. Il suo approccio resta votato a un umanesimo psicologico colto nel farsi del destino di personaggi persi in se stessi, ma il passaggio dalla narrazione documentaria alla fiction in costume determina uno scarto tutto particolare, che offre al film una dimensione simbolica strana, tanto intensa quanto distante, vaga, qua e là allucinata. L’America resta la scena trasparente su cui Minervini mette alla prova la sua visione del mondo e allora l’intreccio di destini di questi uomini semplici diventa l’espressione narrativa di uno sguardo sociale lucido. Quando la guerra esplode improvvisa e il nemico diventa qualcosa di concreto ma invisibile, il film assume un atteggiamento ancora più astratto, qualcosa che non corrisponde a una dimensione né mentale né fisica. La fotografia raggela i colori e diffonde lo scenario naturale in un fuori fuoco che sembra quasi avvolgere i corpi dei protagonisti. C’è dolore e indifferenza in questo film, ma c’è soprattutto la voglia di alzarsi e rispondere alla chiamata di una qualche vaga coscienza che ci urla dentro. Sarà suggestione, ma l’impressione è che I dannati sia il film più attuale e urgente che Minervini abbia fatto sinora…