Il narratore seduto. Elemento d’arredo, dice scherzando Paolo Genovese a proposito della presenza di Valerio Mastandrea e del suo personaggio: un tavolo e una sedia in un bar (che esiste davvero: location placement di ritorno…). Anzi due sedie: una per lui, l’Uomo che regge le storie, legge i destini in un fitto quaderno e infligge azioni da compiere per vedere realizzato un sogno; l’altra per gli attanti di una narrazione che resta fuori campo, trattenendo in scena la sola sceneggiatura, la descrizione degli eventi accaduti. In mezzo il vuoto di una narrazione che sostiene gli equilibri di una morale della fiaba alquanto fluida, anzi liquida, che è concetto più consono ai nostri tempi. La tessitura sta nell’annodare i destini di figure che questuano alternative esistenziali e occasioni di vita: il padre di famiglia vuole salvare il figlioletto malato terminale, la vecchia signora vuole riavere indietro il marito svanito nell’Alzheimer, la squinzia di borgata vuole essere più bella, la moglie insoddisfatta vuole ritrovare l’interesse del marito, la suorina in crisi vuole sentire di nuovo dio, il poliziotto carogna vuole recuperare il rapporto col figlio, il garagista sfigato vuole una notte d’amore con la modella del calendario, il giovane cieco vuole recuperare il bene della vista… Il principio è quello della preghiera: in ginocchio davanti a un dio (sarà mica il diavolo in persona?) per chiedere una grazia. Nessun cero da accendere, ma un’azione da compiere, spesso cattiva, anche assai, a volte in controbattuta rispetto a quella impartita a un altro personaggio. A fin di bene c’è poco da fare, anche se nel movimento delle somme sfere del destino, ovvero negli ingranaggi della narrazione, si può celare il mistero di una salvezza: sospiro di sollievo per l’Uomo seduto, che ascolta stanco tutti quei bisognosi e distribuisce suo malgrado le azioni. L’egoismo dominante impacchetta la morale, il fiocco ce lo mette l’ipocrisia con cui i disgraziati giustificano le loro azioni, la sostanza resta l’inconfutabile bisogno di ottenere il proprio fine.
Di fronte a tutto questo c’è l’oggetto film, esposto come un’installazione al centro della stanza, struttura architettonica sotto ogni aspetto in sé conclusa: da qualunque parti lo guardi The Place è talmente evidente che sostanzialmente non esiste. Intanto perché è la dichiarata e a tratti pedissequa riduzione cinematografica di una serie statunitense (The Booth at the End: la prima stagione, produzione 2010, ora su Netflix). Il che non rappresenta certo uno scandalo, anche se non avrebbe fatto male dirlo a chiare lettere pure nella comunicazione generalista, dove invece è passata piuttosto l’idea della nuova geniale invenzione narrativa dell’autore di Perfetti sconosciuti… Va detto invece che, rispetto al piuttosto scialbo prodotto televisivo, il tono caldo, vagamente esistenzialista, adottato da Paolo Genovese risulta più intrigante, psicologicamente pregnante, meno banalmente meccanico. Sarebbe poi bello poter considerare The Place come un oggetto teorico, utile come cavia da laboratorio narratologico per dis/incarnare il ruolo del narratore: problematizzandolo, rendendolo funzione morale in bilico tra innocenza e colpevolezza, bene e male, libertà e coazione… Ma si rischierebbe di sfasciarlo tra le mani, manipolandolo troppo sia con strumenti filosofici che con argomentazioni etiche. Alla fine resta più che altro un gioco narrativo, coerente con la sostanziale funzionalità da exquisite corpse da cui discende tutto il racconto serializzato. L’idea stessa della narrazione radiale, che da un unico motore immobile si irradia sulle trame intrecciate di tutti i personaggi, resta per Genovese un meccanismo centripeto, che non esce dal laboratorio psicodrammaturgico dell’universo/bar, in cui si arrampica, come sugli specchi, la sua macchina da presa, bisognosa di alterne prospettive, punti di vista inutili, incidenze angolari irrilevanti: alla prova di un’analisi semiologica, non una sequenza di The Place darebbe frutti interessanti… Se poi lo si prende come progetto produttivo, il film si impone di certo per una funzionalità finanziaria eccellente (costo minimo, location unica, pianificazione ideale per permettersi un casting stellare, format garantito alle spalle, e davanti magari la possibilità di serializzare il prodotto: viva la Ferilli…). Ma resta forte la sensazione che, in fin dei conti, si tratti del passo finto (e non falso…) di un regista reduce da un grande successo e timoroso di sbagliare: The Place sostanzialmente riproduce lo schema di Perfetti sconosciuti (un tavolo e l’intreccio teatrale di segreti e destini a svelare la vera natura dei protagonisti) e lo fa azzerando la carne, il contatto reale, sanglant, tra figure in scena insieme, che era l’elemento drammatico vincente del precedente esperimento. Il merito, semmai, è quello di dimostrare agli invasati seriali, che un film può fare altrettanto (bene) di un’intera serie televisiva…