Il Paese delle non meraviglie in Il mio posto è qui, di Daniela Porto e Cristiano Bortone

Forse è guardando in sala un film come Il mio posto è qui che comprendiamo quanto ancora il cinema abbia una presa sul pubblico e quanto fascino riesca a possedere quando diventa dispositivo narrante che, per di più sa fare anche presa sull’identità non solo antropologica, ma anche culturale. Il film di Daniela Porto e Cristiano Bortone racconta la storia di una emancipazione femminile, quella di Marta, rimasta sola giovanissima, con il figlio Michele a carico, dopo la morte del suo fidanzato in guerra nel 1943. Marta resta sola in questo dopoguerra nell’interno di un territorio calabrese che sembra isolato dal mondo. Vive con i suoi genitori che pensano di risolvere i problemi affidandola in sposa al primo che la chiede nonostante il suo passato, ma più che altro come donna utile ad accudire le due figlie dopo la morte della prima moglie. Ma Marta ha altre idee in testa e con l’aiuto di Lorenzo (Marco Leonardi) che fa il sagrestano nella chiesa del paese, riuscirà ad affrancarsi da quei luoghi e da quella cultura escludente per donne ed omosessuali come Lorenzo. Il mio posto è qui, tratto dal romanzo omonimo di Daniela Porto, vive su queste istanze di rivalsa di genere con le sue ascendenze più o meno dichiarate che vanno dal recente C’è ancora domani quanto ai temi dell’affermazione femminile maturati peraltro negli stessi anni a considerare l’ambientazione temporale dei due film, a La storia in funzione di una resistenza femminile a difesa della propria maternità, e piccola odissea dentro un mondo che sta per cambiare, alle venature che ricordano Una giornata particolare per quel rapporto amorevole, ma anche senza futuro che esiste tra l’omosessuale e la donna in una comunanza di intenzioni e in una sorta di reciproca comprensione per la marginalità che entrambi sono costretti a vivere in un clima di offesa continua alle loro intelligenze.

 

 
È questo groviglio di tracce narrative, di appartenenza culturale e di riconoscibilità nella narrazione che ha l’imprinting di un romanzo di largo respiro, nonostante le ingenuità e una certa enfatizzazione dei caratteri,  ha permesso a questo film di incontrare il gradimento del pubblico e una vittoria al Bari Film Festival per la migliore regia. Un film che sa farsi specchio riflettente nel quale si agitano le figure di un Paese delle non meraviglie che era l’Italia di quegli anni, quasi a misurare le conquiste ottenute in un momento di crisi sociale nella quale si arriva a rimettere in discussione alcuni temi conquistati con fatica e impegno. Questo cinema serve quasi da avvertimento e in questo senso va anche vissuto. Il film possiede, come si è detto, delle frecce al proprio arco con la capacità di sedurre anche grazie alla semplicità interpretativa di Ludovica Martino che impersona una Marta mai sopra le righe, quanto invece determinata nella sua apparente sottomissione alle regole familiari condivise dalla collettività dei luoghi.  Un film che in fondo funziona nel suo impianto narrativo e che cattura l’attenzione con il suo realismo esplicito, l’immediatezza delle istanze dalle quali nasce e la sua capacità di comunicarle intatte ad un pubblico che resta naturalmente attratto dalla identificazione con la storia e i personaggi in quella specie di transfert psicologico dal quale muove il rapporto tra opera e fruitore. D’altra parte lo stesso fenomeno, inatteso davvero in quel caso, è accaduto per il film di Paola Cortellesi che viaggia nella stessa direzione benché su un differente registro drammaturgico.

 

 
Nella sua linearità narrativa, senza scosse e forse con una certa dose di rassicurante prevedibilità, appartiene a quel genere di opere che fanno da controcanto a quel cinema più composito e architettonicamente più complesso, che in questo senso fa fatica ad affermarsi e ad affermare il proprio pensiero e la propria indissolubilità dal cinema come arte o disciplina eterogenea, ma dotata di una propria precisa autonomia artistica. Il mio posto è qui vive anche sulla carta come corpo narrativo, come romanzo che duttilmente, in quelle parole, fa vivere di altra vita i personaggi che non restano relegati alle immagini del film che ha quindi il compito quasi di dare forma e sostanza immaginativa a quel racconto. Diversamente è per l’altro cinema che più affannosamente cerca una propria affermazione solo nelle immagini perché per quelle e solo per quelle è stato pensato. Nulla da sottrarre al film di Porto e Bortone, che sa utilizzare anche in funzione narrativa i luoghi il che non è frequente e, tanto per restare in tema di citazioni, l’esperimento analogo, molto più insistito in verità era riuscito per Una femmina di Francesco Costabile che pur attingendo allo stesso ambiente culturale lavorava su un registro più astratto quantunque calato nella accidentalità degli scenari calabresi. L’altro pregio che sicuramente va riconosciuto a Il mio posto è qui è quello di avere messo in scena una storia calabrese, ma con l’afflato di una storia universale, i confini territoriali si smorzano e si annullano nella capacità di conferire ai personaggi – e questo è un merito della scrittura – una fisionomia che superi la necessaria contestualizzazione per assimilarli ad una radicata natura italiana riconoscibile dovunque e dovunque vissuta, tratto unificatore di un Paese che resta uguale ad ogni latitudine nonostante la fruttuosa diversità culturale che ogni luogo porta con sé.