I vulcani ci dicono dell’antichità della Terra, della furia degli elementi, dell’indifferenza della natura per qualsiasi tipo di manifestazione umana, e nel farlo ci ricordano la nostra inadeguatezza di uomini in un mondo non sempre decifrabile. Lo sa bene Werner Herzog, da sempre alla ricerca di un modo per dimostrare che non esiste armonia, se non quella innata, che regola il cosmo secondo leggi non sempre comprensibili all’uomo. Di questo universo affascinante tanto quanto inconoscibile, fanno parte i vulcani, appunto, vecchia conoscenza del regista tedesco, che nel 1977 andò a vedere da vicino cosa stava accadendo attorno ad un vulcano che stava per scoppiare. In quel caso nulla accadde, ma il regista riuscì ugualmente a raggiungere il cratere e, nel percorso, ad osservare un lembo di terra precipitato in una situazione quasi surreale. Potenza dei vulcani, sembra dirci il regista di Fitzcarraldo, quella di condizionare in modo profondo la vita attorno a loro, e non solo dal punto di vista morfologico o geologico o paesaggistico, perché, con il loro cuore di fiamme, hanno impresso segni indelebili nella cultura e nelle usanze degli uomini che vivono in ogni parte del mondo.
Into the Inferno (in programmazione su Netflix) ci fa toccare con mano tutto questo, ma ci accompagna anche attraverso tappe di un’umanità disarmante, che Herzog ama e ricerca in ogni suo viaggio, fin da quando si immerse nel deserto del Sahara in Fata Morgana. Cercare una cosa per trovarne un’altra, si potrebbe dire a proposito del metodo applicato per questo documentario, come sempre atipico e ipnotico, che fa un lungo giro su se stesso per tornare al punto di partenza, dopo derive e divagazioni che mescolano il magna rovente con la vita e i pensieri di gente comune e ricercatori e scienziati. Herzog e il vulcanologo Clive Oppenheimer (conosciuto in Antartide nel 2007, quando si girava Encounters at the End of the World) si muovono dall’Indonesia all’Islanda, dall’Etiopia all’inaccessibile Corea del Nord non solo per studiare da vicino i vulcani più attivi e più grandi del mondo, ma anche per incontrare e capire le persone che devono convivere con bellezza e pericolo supremi. Si scopre così, come queste comunità abbiano, nella maggior parte dei casi, sviluppato usanze e rituali che includono la paura e la celebrazione del vulcano stesso. Come dire che hanno trasformato in una fede religiosa la loro paura oppure, o, nell’inaccessibile Corea del Nord, in strumento di esaltazione e di propaganda. Ci si distrae spesso in questo film coraggioso e tradizionale. È lo stesso Herzog a mostrarci la strada verso le deviazioni del discorso, il salto dalla Storia alle storie, dai miti agli incontri straordinari con uomini puri ed entuasiasti, che riconoscono immediatamente i frammenti di fossili dispersi nella Rift Valley in Etiopia e ballano per la gioia di ogni ritrovamento. E ci sono anche i vulcanologi francesi, Maurice e Katia Krafft, che hanno corso rischi incredibili per fotografare da vicino le colate laviche di cui sono stati testardi testimoni e morirono nel 1991 proprio per l’umana curiosità di vedere più da vicino la catastrofe nel suo pieno svolgimento. Un viaggio attraverso migliaia di anni, in un andirivieni stregato dalle immagini della lava che si precipita a grande velocità, i lapilli che saltano, il fuoco che vive come fosse un’enorme bestia silente sotto una superficie incandescente. Come se la Terra trattenesse lo scorrere del tempo proprio in queste voragini e il principio e l’oggi fossero territori confinanti.
E poi ci sono i capi di antiche tribù, custodi dei segreti dei loro vulcani, dove vivono gli spiriti dei morti e i demoni, e da dove affiorerà un uomo per portare beni di consumo a chi avrà avuto fede e pazienza. L’attesa si fa sensazione fisica in questi racconti, non c’è posto per l’astrazione o la stilizzazione del vero, ma il tutto è avvolto da un senso di profonda rarefazione del reale, spinto fuori dal quadro dentro le nuvole nere e i fumi prodotti dai crateri. C’è tutto lo sguardo di Herzog in questo film, la sua leggerezza, le ombre, la tensione verso l’impossibile e oltre, lo stupore che si rinnova ad ogni immagine e la trasformazione del racconto in epica, grazie a musiche straordinariamente ingombrati (Verdi, Wagner, Rachmaninov), capaci di avvolgere paesaggi lunari e uomini eccentrici di fronte alla macchinada presa. “È difficile distogliere gli occhi dal fuoco che brucia in profondità sotto i nostri piedi, ovunque, sotto la crosta dei continenti e sotto i fondali marini. È un fuoco che vuole fuoriuscire, a cui non importa nulla di ciò che facciamo qui sopra. Questa massa in ebollizione è solennemente indifferente ai frenetici scarafaggi, agli indolenti serpenti e agli insulsi esseri umani”, dice Herzog verso la fine del film, e si pensa a Leopardi che visse ai piedi del Vesuvio e scrisse: “A queste piagge / Venga colui che d’esaltar con lode / Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto / È il gener nostro in cura /All’amante natura. E la possanza /Qui con giusta misura /Anco estimar potrà /dell’uman seme, / Cui la dura nutrice, ov’ei men teme, /con lieve moto in un momento annulla / In parte, e può con moti / Poco men lievi ancor subitamente / Annichilare in tutto. / Dipinte in queste rive / Son dell’umana gente / Le magnifiche sorti e progressive”.