La controra dell’infanzia: a FilmmakerFest Gioia mia di Margherita Spampinato

Ci sono film che sanno di controra, di quella greve calura dell’attesa appesa al tempo della vita che solo chi vive ed è cresciuto nel meridione conosce davvero. Gioia mia, l’opera prima di Margherita Spampinato (a Locarno78 in Cineasti del Presente) è uno di quelli: scritto sulla flagranza della sospensione tra mondi e tempi contrapposti, è un film che nutre la saggezza della semplicità con pochi elementi, classici eppure colti in verità e sincerità tanto da apparire di nuovo nuovi. Il setting siciliano è smarginato in qualche metro quadrato: un caseggiato antico, abitato da anziane donne sole (uomini non ce n’è, quasi fosse un gineceo sospeso sul tempo…) con un nugolo di bambini e bambine dispersi nell’euforica routine delle vacanze. Un po’ meno euforico è l’arrivo di Nico, ragazzino di città che la famiglia troppo impegnata consegna alla prozia Gela (è Aurora Quattrocchi e ho detto tutto) per trascorrere il resto di un’estate che non dimenticherà facilmente.

 

 
Nico nutre nel suo giovane cuore il dramma di un primo innamoramento svanito, quello per Violetta, la ragazza che si è curata di lui nelle more della famiglia e ora sta per sposarsi. Nico avrebbe voluto tenerla tutta per sé e ora la sua nostalgia sentimentale va dritta a cozzare contro la sbrigativa rigidezza affettiva di Gela. La quale è una signorina di 75 anni, abituata a vivere sola nella casa in cui è cresciuta e dove ora si trova ad accogliere malvolentieri un pronipote che non conosce abitudini, regole, accortezze, gesti e ritmi di quella vita. Per Nico sarà un apprendistato alla concretezza dell’esistere e per Gela il tempo per finalmente riscoprire il valore del contatto affettivo. Margherita Spampinato organizza questi pochi elementi in una sceneggiatura semplice e funzionale, ma lascia che il film poi respiri nelle mezze tinte del gioco tra i personaggi, i loro caratteri e lo spazio in cui si muovono. Nella distanza generazionale che li separa, i due protagonisti sono portatori di storie incompiute da cui sono segnati fatalmente, amori impossibili per schemi di età e di genere che non lasciano scampo. Ed è proprio nella comprensione implicita di questo gioco che lo sviluppo della storia prende corpo, lasciando progredire i sentimenti e crescere le emozioni. Con l’aiuto di Gela e la complicità di donne e bambini del caseggiato, Nico impara a stare nel suo tempo, liberandosi dall’incantesimo di un amore adulto che non può appartenergli.

 

 
Alla stessa maniera, Gela prenderà le misure di un amore che l’aveva resa felice in gioventù, ma reso impossibile dagli impliciti veti sociali e familiari. Di mezzo c’è la sfasatura dettata dalla sospensione estiva del tempo, dal calore che immobilizza gli animi e del riverbero della controra in cui si agitano ricordi e spettri. Come quello che emette strani rumori nel silenzio del palazzo e che il gineceo del cortile vorrebbe esorcizzare, ma la cui vera natura sarà scoperta solo da Nico con l’aiuto di Rosa, la ragazzina del palazzo che saprà aiutarlo a rimuovere Violetta dal suo cuore. Sfumato nel gioco tra la qualità adulta della riflessione e la sostanza di una narrazione che guarda all’infanzia come soggetto da valorizzare, Gioia mia è un’opera prima che lavora con immediatezza sugli elementi messi in gioco. Il sostegno che viene dal duetto tra Aurora Quattrocchi e il piccolo Marco Fiore è essenziale a reggere il ritmo del film, che però sa anche insistere su un lavoro di sponda offerto dal contesto in cui la vicenda di sviluppa. Lo stile è caldo e immediato e la semplicità con cui elabora gli elementi è una qualità che non va sottovalutata, perché sa dare emozioni immediate alle quali ci stiamo purtroppo disabituando. Magari mi sbaglio, ma ho come l’impressione che a Franco Battiato un film come questo avrebbe detto qualcosa…