Lucio è un uomo spezzato. Lo vediamo alzarsi dal letto con aria svogliata, osservare il panorama su Buenos Aires con distacco dolente. Partecipa alla presentazione di un libro di un’amica poetessa con un atteggiamento sospeso tra l’invidia e l’inedia. È separato; ha una figlia che adora ma che tratta con un eccessivo e colpevole controllo; ha un padre che gestisce una mensa di quartiere, eroe popolare con il fisico che scricchiola; ha da poco un posto da supplente di letteratura in una scuola difficile, gli alunni lo osservano con indolenza, distanti da quel mondo letterario che Lucio vorrebbe evocare. È uno scrittore che non scrive, un uomo che non ama, travolto dalle incertezze fino a una raggelata disperazione in levare. Ma, quasi senza accorgersene, Lucio si affeziona ai suoi allievi, viene risucchiato in un gioco pericoloso con le mafie locali, che controllano lo spaccio di droga e che soprattutto considerano quel territorio – compreso l’istituto scolastico – roba loro. In Il supplente, Diego Lerman traccia il percorso di una redenzione casuale, di una resurrezione né cercata né voluta. Il film vaga tra sequenze scolastiche, quadretti familiari, inaspettati momenti sentimentali. Lucio è un uomo che non sa stare al mondo ma che impara a farlo, con il risvegliarsi della motivazione e degli affetti. I suoi rapporti sono superficialmente conflittuali, affidati a una pigrizia che si scuote in maniera quasi istintiva.
Ma la sola idea di uno scopo – il “salvare” i suoi studenti da un abbandono scolastico causato da questioni diverse, di malavita, di sicurezza, di quieto vivere – lo restituiscono al mondo, lo scuotono fino a farne un piccolo eroe. Il pregio maggiore di Il supplente è la scelta di un’osservazione ostentatamente ravvicinata, che si tratti di una classe o di un momento ospedaliero o di un amplesso estemporaneo. La giusta distanza, per un potenziale alienato come Lucio, è quella della vicinanza, dell’empatia, del cuore gettato oltre ogni ostacolo. E così risultano fluidi i passaggi di ritmo, di tono, di genere: si abbracciano il dramma familiare, il ritratto psicologico, l’analisi sociale, addirittura il film d’azione con la stessa placida naturalezza, con la stessa impavida affezione per i propri personaggi. Perché nel susseguirsi serrato degli avvenimenti, Lerman non perde mai il controllo, riportando ogni volta il cuore del racconto – il nocciolo della questione – a un’altezza percepibile, a un conflitto emotivo, a una dimensione umana. La regia è asciutta, il montaggio empatico, la tensione costante. A questo equilibrio emotivo contribuisce la prova smagliante dei protagonisti: Juan Minujín dona a Lucio fermezza e fragilità, Alfredo Castro plasma la sua figura paterna – il “Cileno”, sospeso tra compassione familiare e ideologia sociale – sulle corde dell’autorevolezza.
Il supplente è un film volutamente aperto, che descrive un’Argentina marginale ma mai doma; che spinge, senza retorica, all’assunzione di una responsabilità tutta da inventare; che mostra un umanesimo mai peloso, mai compiaciuto, mai piegato all’immagine retorica degli umili visti come animali da safari. Anzi, è proprio attraverso il confronto, non sempre funzionale, con la sua classe che Lucio scopre per sé una nuova idea di futuro, di impegno, di partecipazione. E solo attraverso questa improvvisa consapevolezza riuscirà a reinventarsi, a essere utile e accettato, a trovare un posto nel mondo. Il supplente è un film generoso e umile, perfettamente consapevole, ma mai vittima, del suo messaggio politico. Un’opera preziosa che ci ricorda – e non è cosa da poco – che, volendo, ognuno di noi potrebbe essere migliore.