Fino a che punto si può arrivare pur di conservare il proprio lavoro? Una domanda tutt’affatto insolita ormai, che entra con sobrietà nel concorso del festival di Cannes con il film La loi du marché coraggioso film di Stéphane Brizé, già sceneggiatore e regista di cinque lungometraggi, spaziando tra drammi intimi e commedie sentimentali. Questa volta l’inversione di tendenza è rappresentata dalla necessità di mettere in scena una parte della società che lo stesso Brizé definisce violenta. E non si tratta di lotta di classe, ma dei meccanismi che si sono radicati nel mondo del lavoro, a tutti i livelli, come silenziosi ricatti che nessuno sembra riuscire neppure a nominare. E sobri e discreti sono i modi e le forme del racconto che il regista persegue nel mettere in scena un uomo, la sua famiglia e il suo nuovo lavoro.Una vita come tante, quella di Thierry, rimasto disoccupato per più di un anno, ora cerca lavoro con determinazione. Seguendo corsi di aggiornamento, aggiornando il curriculum, seguendo i consigli di un consulente e facendo colloqui via Skype. Lentamente, si dispongono i dettagli di un discorso da analizzare in profondità, ma seguendo una linea ordinata ed essenziale.
Con la sua macchina fissa, infatti, Brizé segue il suo personaggio da vicino. Quasi un primo piano continuo sul volto pacato ma stanco. Le parole, la disciplina di giornate organizzate e intense, senza trascurare nulla, la famiglia, il figlio handicappato, la moglie, il corso di ballo, la vendita di un bungalow al mare. Non ci sono fronzoli né mai ci si dilunga in spiegazioni. L’essenziale, dunque, come obiettivo formale e stratagemma narrativo. E come principio produttivo, dal momento che La loi du marché è stato prodotto con un budget limitato, in totale economia di mezzi e in perfetta coerenza con un film che si interroga proprio su come e perché assecondare o spezzare dispositivi radicati nel malcostume sociale. Ad ascoltare i colloqui cui Thierry pazientemente partecipa, infatti, ci troviamo di fronte ad una prospettiva paradossale, eppure ben presente, in cui il lavoro non è più un diritto o un dovere, ma una sorta di privilegio. Non il principio su cui si basa la vita degli individui e delle famiglie, ma una assurda pretesa. Da qui la convinzione di dover accettare tutto, di doversi accontentare perchéil mondo è cambiato e bisogna stare al passo con le nuove idee. La legge del mercato altro non è se non l’idea violenta in sé che non esistono più principi di equità. In questo senso, e fin dalla sua prima enunciazione, questo film si presenta forte e fragile al tempo stesso, perché tali sono gli argomenti che dispiega nella sua messa in scena tenacemente scarna. Quando Thierry viene assunto come addetto al controllo di un supermercato, ci si accorge perfettamente di come siano sbagliati i modi e soprattutto le parole del mondo del lavoro. Si torna indietro ai colloqui, e si mette finalmente a fuoco che la lunga attesa e il suo travaglio fanno parte di un sistema necessario a convincere il lavoratore della totale assenza di regole. Non serve più interrogarsi su cosa sia giusto o sbagliato, su quali siano i limiti morali da non superare. Non ci sono vincoli di correttezza nei confronti degli altri. Il lavoro è diventata una gara senza condizioni. Non vince il più forte o il più veloce, ma chi chiude gli occhi e non si guarda intorno.