Paolo Rossi dietro Pablito, l’uomo dietro l’eroe di Spagna, a riflettori (definitivamente) spenti. È questa la direzione che Walter Veltroni, nella ormai consolidata veste di regista (ha firmato una dozzina di titoli in meno di dieci anni), imprime a È stato tutto bello. Storia di Paolino e Pablito, un documentario con brevi inserti di finzione in bianco e nero, relativi all’infanzia del giocatore e utilizzati come cornice che lega insieme le diverse fasi. La costruzione è quella classica della categoria: miscela poche e mirate testimonianze con materiale proveniente da archivi pubblici e privati (in buona parte inediti) secondo una progressione cronologica che procede per macro-periodi, risultando ad ogni modo esaustiva. Veltroni si concede giusto una digressione iniziale, quando argomenta che ci sono migliaia di Paolo Rossi nel nostro Paese e offrendoci di conseguenza un saggio di tale varietà (uno studente ucciso in tafferugli pre-sessantottini, un costituzionalista che sopravvisse alle persecuzioni fasciste, un noto cabarettista), arrivando infine al protagonista del suo lavoro – appunto il calciatore – attraverso una divertita citazione cinematografica (da Non ci resta che il crimine). Quindi alterna immagini e resoconti di chi l’ha conosciuto bene, individuando alcuni narratori privilegiati: il fratello Rossano; i compagni di squadra e/o di Nazionale Antonio Cabrini, Marco Tardelli e Beppe Bergomi; l’ex allenatore Ilario Castagner; la seconda moglie Federica Cappelletti. La traiettoria, nota nella sua architettura, è quella di un bambino di Prato che si distingue giocando nell’oliveta vicino a casa e all’oratorio: è un’ala destra tecnica, veloce e al contempo gracile. Notato dagli osservatori della Juventus, finisce a Torino, dove non supera lo status di promessa, zavorrato dagli infortuni, che rendono fragili le sue ginocchia.
Esploderà a Vicenza da centravanti (intuizione dell’allenatore G.B. Fabbri per sfruttarne la velocità di pensiero e l’opportunismo), quindi pure in maglia azzurra al Mondiale argentino, salvo finire al Perugia e patire un infortunio di diversa tipologia: Rossi si ritrova suo malgrado coinvolto nel “calcio scommesse” e subisce una lunga squalifica. Rientra con la maglia bianconera della Juve, ma c’è solo Enzo Bearzot – il commissario tecnico dell’Italia – che sembra credere ancora in lui, anche se poi sono ancora meno quelli che hanno fede nello stesso Vecio friulano (soprannome che gli fu affibbiato dal grande Giovanni Arpino). L’avventura del Mundial spagnolo pare segnata, eppure l’Italia risorge dalle proprie ceneri e il suo profeta è proprio Paolino, da quel momento (e per sempre) Pablito. Di cui c’è pure il dopo: il ritiro a 31 anni, una vita da reinventarsi, la serenità raggiunta, la scoperta improvvisa della malattia. Il film di Veltroni, a suo tempo fu annunciato come una docu-fiction, ma la parte fiction è sostanzialmente irrilevante. Potrebbe semmai essere interessante vederlo dopo aver rimesso mano a Paolo Rossi. L’uomo, il campione, la leggenda di Michela Scolari e Gianluca Fellini, uscito pochi mesi or sono, dove Rossi si raccontava in prima persona, quando ancora la malattia non lo aveva piegato, mettendo al centro la medesima parabola: quella del bambino che coltivava il sogno di diventare un calciatore professionista, a dispetto del fisico mingherlino, della dislocazione in provincia, delle remore materne e (più avanti) delle ginocchia di cristallo, che anni dopo lo costringeranno a un precoce ritiro agonistico; ma che dalla sua aveva una passione immensa per il pallone, coraggio e cuore, un’inesausta voglia di vincere, oltre al talento, ovviamente, e a un fiuto straordinario per il gol.
Un documentario, quello, debitore di materiali di repertorio sfruttati in precedenza e proposti però con sincerità disarmante, che si tiene distante da derive narcisistiche, con il campione che si mostrava modesto senza affettazione nel ricordare le proprie (e altrui) qualità calcistiche, puntuale nella distribuzione di meriti, responsabilità e titoli.
Anche in virtù del confronto effettivo tra i due lungometraggi, si può arguire come il principale punto di forza di È stato tutto bello risieda nel montaggio, che fonde perfettamente documenti mai visti in precedenza, con riflessioni edificate attorno ad essi. Apprezzabile anche la delicatezza di tocco, che riconduce una materia emotivamente sensibile a una prospettiva quasi intima, lasciando volutamente l’epica sullo sfondo e facendo emergere con il pudore il lato privato. Peccato che la cinepresa veltroniana si trattenga quasi sempre troppo a lungo sui soggetti designati, con attitudine voyeuristica, forzando alla commozione, che sarebbe probabilmente arrivata lo stesso in maniera più naturale.