È sospeso tra due mondi, Il castello nel cielo di Hayao Miyazaki: uno a terra, dove vive il piccolo Pazu insieme alla sua comunità di minatori. Un mondo solidale e che nei lunghi corridoi scavati nel suolo lavora e vive, si muove con sicurezza e un certo senso di confortevole appartenenza, affine a quella degli “uomini tranquilli” di fordiana memoria, sempre pronti a lanciarsi in qualche allegra scazzottata. Lì si consumano pasti e si incontrano anziani viandanti che ascoltano la voce delle rocce, ne conoscono quelle luminescenze in grado di descrivere piccoli cieli sepolti. Dei vari lungometraggi dell’autore, Laputa è in effetti quello che più tempo spende in questi spazi chiusi, determinando un’estetica differente, fatta di tinte verdi, bluastre e marroni e di una vivacità terragna, in grado di determinare un’inedita e affascinante asprezza. Al computo degli ambienti vanno naturalmente aggiunti anche il ventre delle aeronavi e le fucine in cui “abitano” altri e non meno caratteristici nonnetti. A rompere l’unitarietà del paesaggio, esplodono poi violente le fiammate dei robot precipitati dalla terra delle nuvole, Laputa. La nazione volante, cantata da Swift nei viaggi di Gulliver, introduce naturalmente all’altro mondo, quello del cielo, da cui proviene la giovane Sheeta “come un angelo” per introdurre Pazu all’avventura e in cui si muovono, con le loro aeronavi, tanto gli agenti governativi, quanto i pirati che del “castello nel cielo” cercano i mitici tesori.
Sembra tutto ben distribuito, quasi “facile”, da manuale del perfetto film d’avventura, che Miyazaki ossequia mettendo a frutto la lezione imparata tanto con Lupin III (la prima serie, ma soprattutto il film sull’altro Castello, quello di Cagliostro) quanto con l’epopea di Conan il ragazzo del futuro, con Pazu e Sheeta impegnati a far evolvere il modello di dedizione reciproca che fu di Conan e Lana, e la dicotomia fra la virtuosa High Harbour e l’avido e distruttivo mondo di Indastria. C’è però un certo travaglio evidente in sottofondo, che problematizza la ricerca del mondo volante condotta dall’autore giapponese. Così, il regno “fordiano” dei minatori e quello gerarchico di militari e agenti governativi, descrivono chiaramente una visione di classe, scissa tra un modello orizzontale e uno verticale, con i pirati a fare da elemento trasversale, che non a caso subiranno un tipico cambio di fronte, da cattivi ad alleati. Ma poi c’è Laputa, che nella visione miyazakiana diventa una sintesi e un monito a questo pianeta diviso: è una sorta di Eden perduto che ha realizzato la visione estrema di un mondo liberato dal peso dell’umanità, nascosta leggera fra le nuvole dove un nuovo ecosistema si è venuto a creare. Ma è pure un’autentica arma di distruzione di massa semovente, il cui sistema centrale può costituire fonte di potere e supremazia militare.
L’avventura diventa così un punto di vista privilegiato per inquadrare un mondo inquieto, che affascina e allo stesso tempo atterrisce, e i cui estremi si rivelano inestricabilmente legati, come le radici che avvolgono il nucleo di Laputa. Un affresco in cui la visione tecnologica è parimenti composita: Miyazaki non nasconde un forte gusto ludico nella creazione del mondo volante, così come delle varie aeronavi e dei piccoli mezzi di locomozione. L’inventario è davvero molto ben articolato, fra libellule meccaniche, corazzate volanti, treni a vapore e naturalmente quei robot che rievocano tanto i giganti che distrussero il mondo in Nausicaa, quanto inedite forme di vita empatiche, che si prendono cura del nuovo ecosistema di Laputa. Come a dire, aria, terra, fuoco… gli elementi ci sono quasi tutti in una visione dove il giusto e lo sbagliato sono fortemente intrecciati. Di fronte a un simile scenario, Miyazaki opta per una rigenerazione, guidato da due bambini della terra e del cielo, un povero e l’altra principessa, che riescono a trovare una loro intima solidarietà. L’avventura assume per questo contorni problematici, anche apocalittici, ma resta al fondo profondamente ottimista circa la sconfitta dei cattivi e la salvaguardia della vita che ha preso il posto delle piazze e delle arcate dell’antico mondo volante. Un po’ come con gli insetti di Nausicaa o lo tsunami di Ponyo, il film cerca nuove opportunità e se anche visivamente si dimostra molto più affine del solito a una certa pulsione apocalittica molto pressante nell’animazione giapponese anni Ottanta (basti pensare ad Akira o a Ken il guerriero), resta un’avventura gratificante, raccontata dalle prospettive più audaci della terra e delle nuvole.