Lo sguardo corrucciato che disegna sul volto il triangolo della tristezza dopo il quadrato che delimitava lo spazio dell’altruismo: i teoremi dell’astrazione sociale nell’epoca delle apparenze, che Ruben Östlund va elaborando nel suo cinema, sono perfetti strumenti di comunicazione simbiotica col mondo contemporaneo. Hanno il merito di spaginare la scansione dei ruoli in cui, a qualsiasi livello del vivere sociale, ci muoviamo quotidianamente e hanno anche il demerito di apparire sempre un po’ enfatici, presi da un’ansia performativa che, del resto, è proprio quella che ormai governa davvero quella scansione dei ruoli… Sono film che cercano e ottengono un cortocircuito tra i valori e i disvalori di cui dicono e in questo finiscono contemporaneamente per accendere la curiosità, stimolare la riflessione, provocare il rigetto e evidenziare i danni, lasciando aperte le contraddizioni, esposte come un osso sotto una ferita aperta. Triangle of Sadness (Palma d’Oro a Cannes 75), dopo The Square (Palma d’Oro a Cannes 70), è perfettamente coerente con questo schema, solo che sposta l’obiettivo dal piano morale delle relazioni, su cui ricadevano i comportamenti del protagonista di The Square, al piano sociale delle azioni, quindi alle dinamiche di un mondo in cui le classi sociali sono livellate in una contiguità meramente funzionale.
La geometria di questo mondo è strutturata sulla triangolazione tra i valori assoluti offerti al vivere contemporaneo dalle categorie sociali di Gioventù/Bellezza, Potere/Ricchezza e Utilità/Povertà. Ci sono dunque Carl e Yaya, una coppia di modelli che, poiché lei è anche una influencer, viene ospitata su uno yacht, per una crociera di VIP. Ci sono quindi anche loro, i super ricchi che galleggiano in alto mare: il russo arricchito col commercio di letame, il megamiliardario solitario che elargisce Rolex per un selfie con giovani donne, l’anziana coppia di candidi inglesi che vende granate e mine antiuomo. E poi ci sono gli addetti alla pulizia, i marinai di servizio, la ciurma che cucina, lava e pulisce… Il comandante dello yacht è un marxista interpretato da un incommensurabile Woody Harrelson, che annega nell’alcol la sua disillusione storica e trascorre la notte di buriana a bere e disquisire amichevolmente col russo fascista che ha vissuto con le mani nella cacca. Intanto la nave rolla nella tempesta, la cena di gala produce una parossistica vomitata generale e l’alba del giorno dopo saluta all’orizzonte minacce pirata che aprono l’ultimo scenario della parabola, quello in cui tutto si azzera e gli schemi saltano: naufraghi su un’isola deserta, Carl, Yaya e un pugno di ricchi sopravvissuti devono ricostruire una società basandosi sulla loro inutilità e incapacità. Sicché una filippina, già addetta alle pulizie sullo yacht, è l’unica a saper pescare, accendere un fuoco e cucinare, e quindi assume una posizione di potere, che ribalta i ruoli non solo tra ricchi e poveri, ma anche tra uomini e donne, tra belli e brutti…
Ruben Östlund, insomma, dispone gli elementi sul tavolo con logica ironica e un certo senso dello spettacolo. Rispetto a The Square, qui i personaggi sono ancor più sagomati, rispondono a funzioni ben precise e la loro caratterizzazione, come pure la scrittura scenica ne sono una conseguenza diretta. Gli unici due su cui il regista tiene la barra di una configurazione umana più piena sono non a caso Carl e Yaya, ai quali sin dall’inizio offre una purezza che arriverà intatta sino al finale, passando ovviamente per tutte le contraddizioni sociali scatenate dalle disavventure in cui vengono coinvolti: vittime più o meno volontarie di un’economia della finzione che astrae la bellezza dai corpi e la impone come valore in chiave di sfruttamento. Triangle od Sadness spinge sul pedale della commedia molto più di quanto facesse il film precedente e va detto che la tenuta narrativa dei 142′ è nettamente inferiore. La stessa scena performativa della cena di gala con vomito si limita a cercare il disgusto dello spettatore e non ha la forza simbolica perturbante che aveva in The Square la lunga performance della cena con l’uomo-scimmia. Il film resta chiaramente un esercizio riuscito nel suo proporsi come una riflessione sull’azzeramento dei valori nel tempo presente, ma la sensazione che Östlund abbia riattivato lo schema del suo successo precedente in maniera un po’ meccanica resta e grava sulla reiterazione della Palma d’Oro come un errore strategico di Cannes 75.