Non è subito chiaro, ma a mano a mano che gli itinerari dei protagonisti di Licorice Pizza si moltiplicano, si rincorrono e si dilatano, a mano a mano che cresce in noi la percezione che quello che stiamo guardando è un racconto a incastro, ci rendiamo conto che la mappa del mondo inventato nel suo nono film da Paul Thomas Anderson, che lo ha scritto, prodotto (insieme a Sara Murphy e Adam Somner), fotografato (insieme a Michael Bauman) e diretto, coincide con la californiana San Fernando Valley, a nord di Los Angeles. Per l’esattezza siamo nel quartiere di Encino, sul cui confine occidentale termina lo stesso Magnolia Boulevard lungo il quale, attraverso un dispositivo narrativo tipicamente metamoderno nel quale lo spazio diventa un contenitore di tempo (basti pensare alla Trilogia di New York di Paul Auster), si affannano, collidono o si ritrovano i personaggi del terzo film di Anderson che ne porta il nome, l’immenso Magnolia (1999). Una strada dalla lunghezza strepitosa che a oriente muore subito dopo avere lambito da nord il Griffith Park, dove si svolge la scena finale dell’immenso America oggi (Short Cuts, 1993) di Robert Altman, al quale Anderson ha sempre guardato come a una sorta di alfabeto narrativo ed emotivo da cui partire, e lì accanto il sobborgo di Glendale, dove si svolgono le storie archetipiche dei romanzi Mildred Pierce (1941) e La fiamma del peccato (Double Indemnity, 1943) di James Cain, portati poi sul grande schermo da Michael Curtiz e Billy Wilder.
Dal presente (gli anni Novanta) di Magnolia e America oggi, in Licorice Pizza ci spostiamo al passato recente degli anni Settanta, quello dell’infanzia e adolescenza del regista, classe 1970. Ce lo dice il titolo, che rovescia sullo spettatore una costellazione di segni enorme e allo stesso tempo fortemente caratterizzata, un pulviscolo di immagini, suoni e odori che parlano di tabù e liberazione sessuale, genitori e figli, guerra e pacifismo, ottimismo e paranoia, religione e ateismo, individualismo imprenditoriale e impegno politico, povertà e ricchezza, gente comune e divi del grande/piccolo schermo ecc., insomma che racchiude tutte le contraddizioni di un American Dream già in stato avanzato di decomposizione, tenuto insieme dall’immaginario vischioso e pervasivo prodotto da un’industria dell’intrattenimento ancora potentissima. Da un lato il cinema, rappresentato dai personaggi di Sean Penn (l’attore Jack Holden, che rimanda al reale William) e Bradley Cooper (Jon Peters, che nella realtà ha prodotto nel 1976 A Star is Born, interpretato dalla compagna Barbra Streisand, film del quale Cooper ha scritto e diretto un remake nel 2018), ma anche dalla sala cinematografica in cui viene proiettato Agente 007 – Vivi e lascia morire (Live and Let Die, 1973) davanti alla quale la storia di Licorice Pizza si compie. Lo stesso protagonista è ispirato all’amico di Anderson Gary Goetzman, che da ragazzino ha recitato nel film Appuntamento sotto il letto (Yours, Mine and Ours, 1968) con Lucille Ball ed è stato ospite con lei e il resto del cast al The Ed Sullivan Show.
Dall’altro lato la musica, rappresentata dal brano composto ad hoc dal fidato Jonny Greenwood dei Radiohead, da una cascata di brani d’epoca più o meno famosi (da July Tree di Nina Simone a But You’re Mine di Sonny&Cher, da Peace Frog dei Doors a Let Me Roll It di Paul McCartney, da Life On Mars? di David Bowie a Walk Away di James Gang ecc.) e dall’aneddoto che ci riporta al titolo: nell’album live Bud&Travis…in Concert (1960) il duo folk scherza sull’insuccesso dell’ultimo disco dicendo che si potrebbe sempre venderne le copie come fossero «pizze alla liquirizia»; l’espressione piace a James Greenwood (non imparentato con Jonny) che nel 1969 la usa come nome di un negozio di dischi a Long Beach, primo di una catena che negli anni Settanta arriverà a contarne oltre trenta nella San Fernando Valley, veri e propri luoghi di culto per gli appassionati di musica. Il reticolo narrativo e la polifonia di voci di Magnolia e America oggi in Licorice Pizza si riducono a un sistema a due equazioni simile a quello degli altmaniani Una coppia perfetta (A Perfect Couple, 1979) e Follia d’amore (Fool for Love, 1985). Le due incognite attorno alle quali si costruisce il racconto sono i protagonisti, il quindicenne Gary Valentine, studente di scuola superiore e attore-imprenditore, e la venticinquenne Alana Kane, assistente di un fotografo locale, interpretati dagli straordinari Cooper Hoffman, figlio del grandissimo Philip Seymour, amico di Anderson morto per overdose nel 2014, e Alana Haim, componente del gruppo musicale Haim, per il quale Anderson ha diretto numerosi videoclip.
Dal loro primo incontro nella scuola di lui, dove lei sta collaborando alla realizzazione del servizio fotografico per l’annuario, il rapporto tra Gary e Alana si dipana lungo il film con la stessa leggerezza trasognata, in cui si mescolano pudore e attrazione sessuale, gioco e relazione di coppia, ammirazione e competizione, rispetto e gelosia, alla base di un altro film culto degli anni Settanta, Harold e Maude (Harold and Maude, 1971) di Hal Ashby. Anderson lascia i due personaggi andare a briglia sciolta per un mondo in cui le minacce della storia (la guerra in Vietnam, la crisi petrolifera ecc.) restano sullo sfondo, seguendone le bizze, i tentennamenti, le coazioni a ripetere, gli errori e le decisioni geniali attraverso piani sequenza e carelli lunghissimi che non vedevamo più dai tempi di Magnolia, con una pazienza e una benevolenza che ricorda quella di Altman verso le creature effimere del suo ultimo film, Radio America (A Prairie Home Companion, 2006), al quale Anderson ha partecipato in segno di devozione come assistente alla regia. Dopo le demistificazioni impietose de Il petroliere (There Will Be Blood, 2007), The Master (2012), Vizio di forma (Inherent Vice, 2014) e Il filo nascosto (Phantom Thread, 2017), lo sguardo di Anderson sembra essersi placato: verso il mondo, guardato con ironia indulgente invece che con sarcasmo dissacrante, e verso se stesso, concedendosi finalmente di distogliere lo sguardo dai “padri”, ritratti dalla prospettiva ambivalente del figlio, per rivolgerlo alla sua condizione di figlio, ritratta dalla prospettiva pacificata di un padre “diverso”. Se in Magnolia si ripeteva ossessivamente il mantra biblico e shakespeariano secondo cui “le colpe dei padri ricadranno sui figli”, qui, messi fuori gioco i padri, quei boomer di cui è stato dichiarato il definitivo fallimento, i figli sono liberi di vivere e sperimentare fuori dalla gabbia predeterminante della discendenza, commettendo semmai le proprie colpe, ma soprattutto confrontandosi solo con stessi.