Per un figlio: gli italiani di seconda generazione chiedono spazio (sullo schermo e nella società)

Il fenomeno migratorio (meglio: la sua intrinseca incontrollabilità) è da anni al centro del dibattito politico europeo e, grazie (!) a Trump, ha ora guadagnato posizioni pure in quello americano. Mai uno straccio d’idea sostenibile, mai una soluzione (non penseremo certo che lo siano i muri o il tiro a segno ai danni dei barconi, pure ipotizzati o addirittura preparati da qualcuno): solo guerre di posizione (tra poveri), tanta fuffa e, raramente, perle ai porci come la profezia illuminata di un pastore amato ma forse troppo inascoltato (prima nelle discariche africane, ora a Scampia) qual è Padre Alex Zanotelli, che pende su di noi come una spada di Damocle: “Non ci faranno dormire”. Intelligentemente lontano da un dibattito sterile, si collocano la prospettiva inedita – almeno per l’Italia; nel Regno Unito è vecchia di anni – e lo sguardo fresco e minimale di un giovane cineasta, a raccontarci l’immigrazione vista da dentro. Nessuna immagine epocale, e conseguenti strascichi tra il mediatico e il quotidiano, incrociano la narrazione di Per un figlio, lungometraggio d’esordio del 29enne Suranga D. Katugampala, nato nello Sri Lanka e arrivato in Italia da piccolo con la propria famiglia, divenuto cittadino italiano solo pochi mesi addietro. Al contrario, il film – Menzione Speciale della Giuria al Festival di Pesaro 2016 – sceglie di immergersi dentro il liquido amniotico di una narrazione intima, personale, sebbene dai potenti riflessi universali.

 

Per un figlio ha cominciato il 30 marzo a Milano (presso il Cinema Beltrade che ne aveva già ospitato la presentazione per la stampa) il tour promozionale che lo vede accompagnato in giro per la penisola dal regista e da Antonio Agugliaro (in proprio girò il fortunato Io sto con la sposa, altra incursione “atipica” nel contesto dei flussi migratori in Europa), ora nella veste di produttore, dov’è ben coadiuvato da Gianluca Arcopinto, esperto del mestiere e con il fiuto d’oro per le piccole gemme. La storia si svolge in un centro del Nord (il dialetto lascia intuire piuttosto chiaramente che siamo in Veneto, ma la cosa non è particolarmente rilevante), dove la cingalese Sunita è badante fissa presso un’anziana non autosufficiente. Eppure la donna fa di continuo la spola tra la casa in cui lavora e il minuscolo appartamento che ha affittato per accontentare il figlio adolescente, il quale mal sopportava i lamenti della vecchia signora. Nonostante i sacrifici fatti “per il figlio” (la donna infrange anche il patto lavorativo a tempo pieno, assentandosi per cucinare, mangiare, talvolta dormire con lui), Sunita ne ricava giusto silenzi irritati, alzate di spalle, commenti sprezzanti e mezzi insulti smozzicati in un italiano che ella stenta a comprendere. In un oceano anaffettivo (o, quantomeno, di affettività repressa) – dove la vicenda principale rispecchia quella che, nascosta tra le righe, vede protagonista l’anziana e la sua prole distratta – si scontrano due muri: il ragazzo che rifiuta tutto del paese d’origine, aborrendone idioma e usanze; la madre, che ha il corpo stabilmente in Italia, ma pure il cuore e la mente rivolti al villaggio natio. Per un figlio è un esordio abbastanza rigoroso, asciutto nella messa in scena e scarno (a volte troppo) nello sviluppo drammaturgico; eppure di sicuro impatto, “perché – come ha sottolineato Agugliaro – mai in Italia, le seconde generazioni erano state raccontate in un film che non fosse il solito documentario rivestito da inchiesta, ma dentro un lavoro di finzione con l’esplicita ambizione di essere distribuito nelle sale. Chissà che non ci si renda conto che le seconde generazioni non sono un’invenzione mediatica, ma esistono e sono pure in grado di contribuire alla vita culturale e all’immagine stessa del nostro Paese”. Della prospettiva è convinto il regista, ora nostro concittadino, il quale attribuisce una chiara paternità pure al film: “È assolutamente italiano, mentre il messaggio è universale, con l’ambizione nemmeno troppo segreta di spostare lo Sri Lanka dalle pagine di cronaca dei quotidiani a quelle della cultura. Io, sotto il profilo dell’appartenenza, sono un po’ diviso: ho una gamba qui e una nel mio Paese d’origine. Il film, comunque, ci ricorda – tra le altre cose – come il cerchio che chiamiamo Italia sia ormai un recinto stretto e lo stesso concetto di integrazione sia superato. C’è una nuova Italia da considerare, ci sono nuovi cittadini: allarghiamo il cerchio, senza paura”. Katugampala ha girato con un budget risicato, contando sulla solidarietà della gente con cui è entrato in contatto; eppure si è concesso, per il ruolo di Sunita, il lusso di una protagonista femminile del valore di Kaushalya Fernando, in Sri Lanka una star, ma volto noto pure a Cannes, Venezia e nei maggiori festival: “È una diva: per farle capire quant’è duro il lavoro che andava a rappresentare sul set – argomenta sorridendo il regista – l’ho mandata una settimana ad aiutare mia zia, che fa proprio la badante”. Il risultato (un’immedesimazione totale, ben espressa attraverso una gestualità minima e quasi in assenza di parole), conferma che sono stati giorni ben spesi. Ma non è da meno – nel panni del figlio – il 17enne Julian Wijesekara, che pure è un esordiente assoluto: pescato in un liceo milanese dopo un selettivo lavoro di casting, risulta convincente, pur tenendoci a precisare che “differisco parecchio dal mio personaggio: io vado fiero delle tradizioni del mio Paese d’origine, nonostante che abbia una mentalità aperta, decisamente occidentale. Resto convinto che il film fotografi una situazione vera: il distacco tra le prime generazioni, che sono senza dubbio molto legate alla madrepatria, e le seconde, più o meno ben integrate. È un fenomeno presente in ogni comunità di immigrati: quella cingalese non fa certo eccezione”.