Certo, Villeneuve non riesce (e forse non è interessato) a innervare l’ampio, oggettivo diagramma del poliziesco con la temperie emozionale, psicologica che era, mettiamo, di The Counselor (un Fassbender dilaniato dalla propria soggettività, che faceva da contrappunto al carname di sua moglie scaricato in una discarica) ma in compenso delinea una mappatura di questo contesto di intervento poliziesco, un diagramma di vettori che segnano lo spazio (cinematografico), preparano il terreno, e infine lo fendono. Sono numerose le inquadrature dall’alto, superfici prese dai satelliti, passate ai raggi infrarossi, che stagliano questo cinema in quanto cartografia, fotografano l’orografia di questo territorio elevandola a fredda dimensione filmica e togliendo spazio a psicologie: quella dolente e spietata di Alejandro e le ragione della solitudine di Kate, che restano in pura superficie, semplici concrezioni, escrescenze dell’estensione tellurica (schematica, laconica) di questo cinema. Una zona di confine, dunque, inerente all’attraversamento pericoloso (vettorialità appunto), che è la vera sostanza del film: un’azione di violazione del confine messicano che assume un’ulteriore rilevanza teorica, andando fuori dal canone poliziesco, in favore di un sistema divenuto ibrido, con interpolazioni belliche, nella declinazione, mettiamo, della Bigelow. E ciò accade subito ed è deflagrante: l’esplosione di un ordigno toglie di fatto la competenza delle operazioni (e sulla materia cinematografica e la sua dinamica vettoriale a venire) alla polizia affidandola a una CIA che ne infrange le regole (sacrificando singole vite in nome dell’ordine generale); e a una masnada di soldati reduci dall’Afganistan, portatori dell’armamentario guerresco, tutta un’iconografia ingombrante, possente che sovrasta le complessioni dei due poliziotti; un correlativo oggettivo e muscolare che era di American Sniper, Zero Dark Thirty, Redacted; a cui si uniscono, a diversificare ancora di più i costituenti del film (così ormai edificato fuori dai generi), sceriffi texani, un sicario del cartello colombiano (Alejandro) e appunto l’inoffensivo testimone (di questo passaggio di consegne), Kate, chiamata a ratificare, sotto minaccia, il passaggio al sui generis.
La dinamica dei vettori entro questa zona bene circoscritta si risolve in due tempi (connotati anche dalla musica laconica e incalzante almeno quanto la struttura di questa cartina geofilmica): prima l’irruzione in Messico di una carovana di veicoli armati, a prelevare un boss-esca (in un’apnea, di corse, attese, spari, in cui Kate resta già senza fiato, personaggio ormai fuori dal proprio habitat, sequestrato in nome di una mutazione di genere); poi l’assalto finale ai vertici del cartello messicano della droga, attraverso un tunnel sotterraneo, da cui parte l’apoteosi di quella che è la fenomenologia della violazione del limite (e così del genere, appunto), cui braccio violento è Alejandro, solo, sicario in quella terra straniera che è diventato il film.