Scritto, diretto, montato e musicato da Matteo Vicino, Lovers contiene tutti i pregi e i difetti del cinema indipendente italiano contemporaneo. Alla base del lungometraggio vi è infatti una curiosa idea di scrittura, capace di dialogare con la tradizione (soprattutto quella nostrana) e abile nel tenere viva l’attenzione del pubblico in anni in cui la frammentarietà della narrazione seriale ha imposto le sue logiche drammaturgiche anche al cinema (con buona pace dei puristi). Così, facendo di necessità virtù e provando a ottimizzare al meglio un budget che immaginiamo non essere stellare ma che, per la resa estetica e produttiva del film, è stato utilizzato in maniera sapiente, Vicino spreme fino all’osso i suoi quattro attori facendo loro interpretare quattro personaggi cadauno calati in altrettante situazioni/episodi differenti. Il gioco non è tanto quello di provare a incastrare tutte le varie linee narrative (anzi, capita solo sul finale in quella che è la scena più didascalica e se vogliamo superficiale dell’intero film) quanto di creare dei ponti tematici tra i diversi personaggi e le diverse strutture drammaturgiche che fungono da scheletro per gli episodi. In un minestrone di volti e situazioni, Vicino imprime la sua idea d’amore, lasciando ben intendere come ai suoi occhi il più irrazionale dei sentimenti abbia comunque una traccia da seguire, una bussola con la quale orientarsi e come sia, tutto sommato, prevedibile. I quattro episodi che tessono le fila del lungometraggio sono infatti simmetrici.
Uguali e opposti. Ogni volto (non si capisce perché alcuni attori subiscano drastiche connotazioni estetiche da un capitolo all’altro, mentre altri restino pressoché uguali dall’inizio alla fine) vivrà emozioni uguali e contrarie lungo tutto l’arco narrativo. Chi era preda diventa cacciatore, chi era sulla cresta dell’onda verrà umiliato, chi fu traditore sarà tradito. Il tutto mai all’interno di una singola parentesi ma impostato in un gioco di specchi e di riflessi che trova maturazione solamente una volta giunti alla fine del film. L’idea, sulla carta, non solo funziona, ma sembra anche più che interessante. Vicino è bravo a intuire la portata del suo racconto, a giocare con la frammentarietà e a incuriosire lo spettatore che difficilmente vorrà quindi abbandonare la visione. Come una piccola serie televisiva, Lovers tiene sull’attenti pur mantenendosi costantemente sulla superficie dei suoi racconti. Non c’è tempo di andare a fondo, non c’è tempo per covare parabole sensate e questo è decisamente il limite maggiore di una sceneggiatura che sovente si dimostra troppo celere, brusca, poco stimolata. Eppure è anche vero che Lovers sia un film popolato da personaggi di facciata, che vivono in vetrina, indossano maschere e difficilmente sono interessati a scavare oltre le apparenze. Persino Bologna, città-set dell’intero lungometraggio, guarda impassibile quello che accade sotto i sui portici. Il capoluogo è l’unica ambientazione del film anche se non sarà mai la protagonista della pellicola (ancora merito di Vicino che riesce a sfruttare a meraviglia gli aiuti della Film Commission emiliana).
Un simbolo che restituisce il ruolo del pubblico: invisibile e spietato arbitro di fronte ai cicli e ricicli amorosi dei personaggi, tutti uguali ma diversi, che si affannano in cerca di un appiglio. Ciò che infatti interessa a Lovers è raccontare una crisi, non per forza esclusivamente sentimentale. Anzi, la componente lavorativa è forse quella più evidente e calzante. I quattro si conoscono per motivi di lavoro, le loro carriere si alternano, si intrecciano, si scambiano. Sono delle mine vaganti che provano a restare a galla, a sopravvivere in un vortice confuso e straniante in cui però, con un po’ di lucidità e meno coinvolgimento (posizione della quale può godere il regista insieme al pubblico) tutto sembra seguire una sua logica, uno schema. Proprio come accade al film stesso, una bomba potenzialmente molto invasiva che scoppia con fatica, ostacolata forse da un po’ di inesperienza (l’invadenza della musica, le rare emozioni suscitate dalla recitazione e alcuni passaggi di scrittura effettivamente poco brillanti) che tuttavia restituisce ulteriormente l’anima indipendente che è alla base del tutto. Croce e delizia come, simmetricamente, si diceva all’inizio.