Diceva Fabrizio De Andrè che “la nostalgia è un mestiere inutile. Nostalgia è il dolore di un luogo dove eri giovane. Vallo a rivedere e la nostalgia per il luogo ti passerà, non quella per te stesso”. È ciò che realizza Mark Renton, quando dopo vent’anni torna a Edimburgo per rivedere coloro che un tempo erano stati i suoi amici – il tenero Spud, lo spaccone Sick Boy, lo psicotico “Franco” Begbie – e che aveva abbandonato a un incerto destino, scappando (come narrato nelle sequenze finali di Trainspotting) con il malloppo di un colpo ben riuscito. Ed è la stessa, straniante, sensazione che ricava lo spettatore dalla visione di T2 Trainspotting, diretto ancora da Danny Boyle, a distanza “dumasiana” dall’opera che il regista di Manchester ricavò nel 1996 dal bestseller di Irvine Welsh. T2 non è certo un brutto film. Semplicemente si adegua al clima mutato e a ciò che i suoi personaggi sono diventati; e laddove riesce ad essere autonomo rispetto all’originale continuamente evocato attraverso flash di pochi secondi – quindi, in particolare, nella deriva amara verso l’autocommiserazione – non risulta mai troppo originale né rappresentativo di un’epoca o di una generazione, come invece accadeva al prototipo (fatta la tara su certe ruffianerie e sugli eccessi “stupefacenti” e scatologici).
Che la reiterazione sia il leit-motiv di molti (se non proprio di tutti i) sequel è un dato di fatto. In T2 appare chiaro sin dalla riproposta nell’incipit di un brano come Perfect Day, che nell’episodio originale era colonna sonora di un trip epocale e qui invece si immalinconisce nel rientro di Mark dopo il lungo intermezzo olandese. Che una evidente (e consapevole?) stanchezza narrativa ed esistenziale caratterizzi poi la reiterazione medesima è conseguenza naturale di un’operazione attesa, molto studiata (Boyle ha utilizzato solo in minima parte Porno, il seguito letterario scritto da Welsh, preferendo costruire un percorso alternativo), ma in fondo edificata su fondamenta abbastanza esili. In Trainspotting era delineato, con sguardo amorale e privo di freni, ritmo travolgente e straordinaria capacità di racconto, il ritratto compiaciuto, iperbolico e profondamente cinico di una generazione che esaltava la bellezza corrotta dei paradisi artificiali (“Provate a immaginare l’orgasmo più bello della vostra vita, moltiplicatelo per mille, e capirete cosa vuol dire farsi di eroina”) e che, in assenza certificata di miti e bandiere, rivelava comunque una capacità per nulla ingenua di adattamento all’ambiente. In T2 la spinta vitale, in massima parte anche quella negativa, è venuta meno: i personaggi sopravvivono, trascinando stancamente (reiterando) esistenze in cui il fuoco ha lasciato il posto alla ripetizione sempre meno convinta di gesti, atteggiamenti, errori. Senza più nemmeno la prospettiva possibile di una fuga. La festa per i quattro (ex) amici è finita da un pezzo: ciò che Boyle mette in scena è quanto resta dopo che si sono spente le luci, gli strascichi disillusi della vita che rimane. Quindi una maturità (?) ripiegata su se stessa, che si barcamena tra ricordi sconnessi, rimpianti impastati con pietose bugie, sogni con il contagiri e atteggiamenti tra lo sbruffone e il melenso, il patetico e il sentenzioso. La colonna sonora, che attinge pure in questa occasione da hit che miscelano presente e passato (Queen, Blondie, Frankie Goes To Hollywood, Alice Wolf, Underworld, Clash, RUN-DMC, Iggy Pop) riveste il nuovo corso esaltando i toni malinconici a danno di quelli adrenalinici e finendo per essere più un mesto accompagnamento che un elemento determinante per condurre la narrazione. Il problema di fondo che zavorra il film non è la poca consistenza della trama o la qualità della regia (la perizia di Boyle è semmai cresciuta negli anni) o la bravura degli interpreti (nonostante carriere di diverso valore e intensità, Ewan McGregor, Robert Carlyle, Ewen Bremner e Jonny Lee Miller tornano magicamente ad essere una squadra affiatata): il limite maggiore di T2 è piuttosto nell’inadeguatezza a rappresentare – volendo conservare lo stesso impianto e i medesimi personaggi del 1996 – il proprio tempo come invece Trainspotting faceva con gli anni Novanta. Se poi Boyle avesse come obbiettivo del film proprio il canto dolente del riflusso di una società (ma non sembra così), allora sarebbero le scelte stilistiche, oltre che l’indulgenza all’autocitazionismo, a rappresentare ostacoli che non ha considerato o che non ha superato; anche lasciando perdere, tra l’altro, il contrasto evidente tra l’asciuttezza disinvolta di alcuni passaggi (i vent’anni olandesi di Mark liquidati con la sintesi di un Noodles in C’era una volta in America: “Cosa ho fatto? Sono andato a letto presto”) e l’incomprensibile urgenza spiegazionista di rivelare perfino i misteri irrisolti dei tempi “sballati”. Un film che si mostra vintage e che magari è addirittura più furbo del primo; che pure si fa guardare senza essere disturbante, ma che lascia infine un retrogusto persistente e dolciastro di fiori appassiti. Triste, solitario y final.