Il Cristo in gola di Antonio Rezza, nella ricca sezione del Fuori Concorso, si colloca esattamente in quello spazio possibile e ancora non del tutto riempito che esiste tra la rabbia evangelico-politica di Pier Paolo Pasolini e l’immanenza cristologica della demitizzazione laico-religiosa di Ciprì e Maresco dell’indimenticabile epoca di Cinico TV. Da entrambi i film Antonio Rezza mutua qualcosa per realizzare questo suo laborioso lavoro di messa in scena, questo altrettanto elaborato lavoro di scrittura attorno alla figura del Cristo. Come ricordano gli illustri esempi, infatti, il personaggio religioso raccoglie da sempre ampi consensi anche dalla platea laica, per non dire atea, che vede con favore, comunque vada e comunque la si pensi, il gesto sacrificale della redenzione, il contenuto rivoluzionario della sua predicazione e la sua umanità coraggiosa nella scelta divina di condivisione del dolore e delle passioni umane, che finiscono con il rivolgersi anche contro il Padre, anche ove filtrate dalla inscindibile e sacra trascendenza. Antonio Rezza ci ha messo un bel poco di anni per portare a termine questo lavoro, il cui inizio nei titoli del film è datato nel 2004, un progetto più volte ripreso, modificato e adattato alle nuove esigenze del tempo.
Il racconto della vita di Gesù, dalla nascita alla morte, si svolge in una Matera che, ripetendo le atmosfere che già furono de Il Vangelo secondo Matteo, diventa un esplicito omaggio a quella rappresentazione e al tempo stesso – come Rezza ha dichiarato – con l’operazione di ambientazione in quei luoghi si vuole sottrarre la città lucana all’incessante sfruttamento turistico-cinematografico, a cominciare dalle ambientazioni di 007, che hanno snaturato, secondo il pensiero del regista-attore, la città piegandola a un consumismo che non si addice alla fragilità che sa conservare. È così che i tufi di Matera diventano di nuovo scenario asciutto e naturalmente adatto allo svolgersi di questa sacra rappresentazione laica che Rezza mette in scena con una adesione rispettosa ai vangeli e all’evolversi della vita del suo protagonista, ma al tempo stesso attraverso una costante provocazione. La rilettura di quella vita dalla prospettiva dello stesso Gesù, che questa volta non sembra essere narrato, ma intende narrarsi, contiene anche la naturale confessione con la quale egli stesso sa mostrare i propri limiti, il proprio innato dolore e l’impossibilità genetica di salvare dalla finitezza l’essere umano, essendo egli stesso imperfetto e accompagnando questa incompiutezza la sua stessa vita. È forse questa la rivelazione maggiore della discesa di Rezza nei meandri di una religiosità che sa fare propria, di un Cristo modulato su uno scenario teatrale e cinematografico e star al rovescio di una sconfitta annunciata. La stessa sua ammutolita esistenza che si manifesta solo attraverso un urlo disperato e invocativo (di una presenza superiore, il Padre Celeste? di dolore per l’impossibilità di una più profonda azione salvifica?) diventano la cifra rappresentativa di una figura trascinata da una religiosità cristiana a una religiosità che diventa disperata reazione all’imperfezione e consente, in linea con i desideri del suo autore e attore, di definire l’umanità di Cristo in un ambito di possibile verità che travalica ogni realismo rappresentativo dei Vangeli, ogni iconografia classica di un Gesù Cristo ammantato di pacificazione soprannaturale.
È con queste credenziali che l’essenziale racconto di Rezza diventa uno dei possibili approcci a quell’intima e radicale rivoluzione desiderata, che si risolve in una trasgressione attesa e fondata su una elaborazione per nulla banale. Riporta, ad esempio, la figura di Gesù a una condizione di piena umanità fatta di paura e disperazione per quella consapevolezza della impossibile salvezza del genere umano troppo preso dal suo egoismo. La figura del Pilato argentino con il mal di testa, ad esempio, è al tempo stesso lampante nella rappresentazione della banalità del personaggio ed esemplare nella figurazione di un potere inetto ed egocentrico, qui esemplificato dalla dittatura argentina che nel sottofondo si percepisce.
Il Cristo in gola, resta l’urlo strozzato in quella gola che non sa articolare parola, così come non la sa articolare Maria che in un gramelot incomprensibile si esprime forse solo compresa dal figlio. Cristo senza parola, solo gesti, sofferenza per un percorso di passione terrena nel quale è possibile riconoscersi con quello sguardo rivolto (e qui torna l’impianto sacralizzato di Ciprì e Maresco) agli ultimi senza voce. E quindi quell’urlo è davvero annientante, oltre che emesso da un Cristo annientato. Ma non c’è blasfemia in Rezza, che rispetta il suo personaggio e anzi ne ha pietà profonda, destinato com’è fin dalla nascita a una fine terribile che nessuno può risparmiargli.
Foto di Ivan Talarico