Con la testa nascosta sotto le coperte, la piccola Sophie legge libri di avventure e ha le sue regole per superare la sua “ora del lupo”, l’insonnia che la porta a gironzolare per i corridoi dell’orfanotrofio dove vive alle tre di notte. Quando si ha paura, quando qualcosa fuori si muove ed è sospettoso, non si deve guardare fuori dalle coperte, scendere dal letto e affacciarsi alla finestra. Tre regole infrante che, come nella migliore tradizione fantasy, fanno di Sophie la migliore delle protagoniste. Tratto dal romanzo per bambini Il Grande gigante gentile di Roald Dahl, prodotto dalla Disney e diretto da Steven Spielberg, The BFG (presentato fuori concorso al Festival di Cannes) riporta il regista di E.T. nei territori puri del cinema fantastico, e non solo perché racconta una storia di giganti e di strane creature, ma perché lo fa con lo sguardo bambino, meravigliato per ogni soffio di vento, ostinato e con gli occhi spalancati, che non si vogliono proprio mai chiudere. La paura è un’emozione evanescente nell’immaginario spielbergiano, serve da trampolino di lancio, come fosse il motore che accende la corsa di una bambina intraprendente e piuttosto saputella e la porta a diventare la migliore amica di un gigante buono, con la fronte sorridente e gli occhi spruzzati di malinconia. Chissà come sarebbe stato questo gigante gentile interpretato da Robin Williams, come avrebbe dovuto essere in origine, quando il progetto ha iniziato a serpeggiare tra gli studios. Di certo il volto e i gesti di Mark Rylance sembrano rievocare quelli del Peter Pan adulto di Hook, che ha disimparato a volare e non ricorda neppure di essere stato sull’Isola che non c’è.
Le analogie sono soprattutto ideali, disseminate nell’aria, nell’invenzione di un mondo capovolto, oltre le nuvole, le mappe, il mare, dove si arriva saltando sulle montagne più alte e che nasconde angoli di impensabile bellezza. E poi ci sono i sogni, custoditi da questo mite vecchio che non sa difendersi dalla prepotenza degli altri giganti, ma conosce segreti che valgono oro. Il modo in cui Spielberg fa muovere i suoi personaggi sembra una danza di quelle improvvisate (e la musica di John Williams come sempre si fa corpo anche da vedere), libera di scivolaredentro uno spazio senza limiti, con oggetti e superfici a profusione:la casa da favola di BFG, che ha per letto un antico vascello (come quello che mette nei guai Tintin), la fabbrica dei sogni (da fare invidia anche alla fabbrica di cioccolato, raccontata dallo stesso Dahl), e poi il mondo incantato sottomarino, perché questo piccolo gigante che lavora di notte, è un cacciatore accanito di sogni da donare agli uomini in difficoltà. E tutto ha la forma dell’albero, rassicurante e antico sinonimo di saggezza e di rifugio, come il grande albero madre di Avatar da cui questo sembra aver tratto ispirazione. Per raggiungerlo ci si deve tuffare a testa in giù in un lago, che lago non è, cambiare dimensione, orientamento, visione e correre dietro alle scintille che sfrecciano da ogni parte. La danza, allora, si unisce alla magia, ed è musical, come l’apprendista stregone di Fantasia e i nerini di Il mio amico Totoro. È ancora una volta un cinema intriso di cinema quello di Spielberg, che ci regala visioni continue e intermittenze vertiginose di universi ed invenzioni. “Mondi perduti” e danzanti, la caverna di Platone si moltiplica, rivisitata in mille varianti, con tutte le ombre e le luci che diventano giocattoli, ma basterebbe poco per trasformale in paurose evocazioni. Dalla finestra dell’inizio, si torna, quindi, ad un’altra finestra, tutte sempre aperte, come archi magici che ci avvicinano alla notte e ai suoi misteri (si pensi a Incontri ravvicinati del terzo tipo), o davanti al giorno portatore di nuove avventure.