Il problema di The Program è che arriva due anni dopo The Armstrong Lie, il definitivo documentario di Alex Gibney sul ciclista statunitense. Dato che è impossibile competere con la dose di verità, pathos e brutalità presente in quel film si sarebbe dovuto cercare un’angolazione differente per affrontare il caso Armstrong. Magari lavorare di più sull’intimità e le motivazioni di un uomo che ha sfruttato cinicamente il cancro che l’ha colpito per costruire il proprio personaggio senza (apparente) macchia . The Program ammanta di una grandezza shakespeariana Lance, soprattutto quando è solo, rinchiuso nella sua villa, circondato dalle maglie gialle incorniciate dei sette Tour vinti, incapace di accettare la sua fine (agonistica e morale). La sequenza viene da un memorabile servizio fotografico (pubblicato da noi da Sport Week della Gazzetta dello Sport) e che, prima della pubblica confessione, testimoniava la solitudine del baro ormai con le spalle al muro. Poi c’è la questione davvero spinosa di rendere credibili le immagini di ciclismo al cinema. E qui da appassionato che ha seguito tappe del Giro, Tour e qualche corsa in Spagna, non posso non notare come le gare risultino false, con le strade affollate di corridori e tifosi a cui non credi nemmeno per un secondo, soprattutto per l’uso di una fotografia che insegue la realtà senza interpretarla e per un mix tra materiale d’archivio e girato discretamente irricevibile. Si salva solo lo stesso Armostrong quando l’inquadratura stringe su di lui in bici, grazie al mostruoso lavoro mimetico di Ben Foster. Il cinema americano e il ciclismo hanno in comune il fatto di apprezzare le storie di grande ascensione e seguente rovinosa caduta (per la redenzione c’è sempre tempo). Quindi il film tratto dal libro Seven Deadly Sins: My Pursuit of Lance Armstrong del giornalista del Sunday Times David Walsh (“Lance Armstrong, osservando il mondo del ciclismo, pensò che non si potesse vincere senza doping”) era perfetto per un biopic su dove conduce la fede assoluta nelle proprie bugie.
Interessante la scelta di Stephen Frears di partire con mezz’ora abbondante dedicata all’affacciarsi del campione sulla ribalta mondiale e alla lotta con la malattia che si risolve in un esercizio agiografico, graffiato ogni tanto dalla presenza del dottor Ferrari, interpretato da Guillaume Canet che si sforza di parlare in inglese con accento italiano (scegliere un attore italiano era troppo scontato?). Il vero dottor Ferrari se l’è presa tantissimo per come è ritratto e ha chiesto il ritiro del film. In effetti non è mai stato arrestato come accade nella pellicola, giova però ricordare che il suo nome compare 480 volte nel dossier che ha spinto l’Usada, l’agenzia mondiale antidoping, a inibirlo a vita. Ad un certo punto la storia si trasforma in una sfida fra il giornalista sospettoso (Chris O’Dowd) e il corridore falso, un inseguimento che si focalizza su un uomo che deve vivere confrontandosi ogni giorno con la menzogna. Un po’ meccanico appare l’uso del flashback intorno ad eventi già visti e riproposti per contraddire il racconto del texano. Si oscilla fra la suspense giuridica, il thriller giornalistico e il film di mafia, con Armstrong vero intimidatore del gruppo, dove fa il bello e il cattivo tempo. Ma dove Frears e il suo sceneggiatore John Hodge convincono appieno è nell’impeccabile analisi di come si possono sfruttare e manipolare i mezzi di comunicazione, di come si può creare consenso attorno a una figura carismatica. E se sui titoli di coda Leonard Cohen conferma Everybody knows, va bene lo stesso. Perché il pubblico ha sempre bisogno di eroi, si sente rassicurato e quando scopre di essere stato ingannato se ne fa presto una ragione e parte alla ricerca di un nuovo mito.