Nel mondo immaginato da Terry Gilliam immaginazione e realtà sono in perenne conflitto, in un equilibrio instabile che, però, non si concluderà mai con la vittoria dell’uno o dell’altro. Come a dire che la vita da lui immaginata non è altro che un percorso ad ostacoli tra verità e finzione senza possibilità di soluzione. Così è per The Zero Theorem, con cui idealmente si conclude (o si arricchisce di un nuovo tassello) la trilogia della fantascienza distopica di cui fanno parte Brazil e L’esercito delle 12 scimmie. L’assunto è vecchio come il cinema: in un futuro non precisato, in cui il mondo è un caotico insieme di decadenza e tecnologia esasperata, un uomo aspetta qualcosa, la chiamata, che dovrebbe risolvere tutti i suoi problemi. Che poi si riassumono nel suo rapporto conflittuale con il mondo, l’isolamento, il desiderio di qualcosa che non sa decifrare, l’uscita da una solitudine nella quale, però, non fa che conficcarsi sempre più, come in un rifugio beffardo. Questo è Qohen Leth, genio dell’informatica, che ha il caos primordiale nel cuore e nei sogni, sfruttato come tanti dal meccanismo di manipolazione del capitalismo. In questa società l’uomo è letteralmente anestetizzato in una forma imposta di individualismo, che garantisce più produttività e sconfina continuamente nella schiavitù. La versione trash dell’umana condizione immaginata in Wall-e, ad esempio, con donne e uomini completamente assorbiti nei loro visori e in una vita senza contatti e senza apparenti problemi.
Terry Gilliam non è certo il tipo da ambienti asettici, e, infatti, riempie le immagini di oggetti e dettagli, organizza una scenografia barocca, gli interni di una chiesa trasformati in abitazione, gli esterni di strade che sembrano tunnel, con l’ossessione di schermi pubblicitari ovunque e volti sintetici a ghermire il passante in forme opprimenti di pubblicità. Il futuro, dunque, ha la forma ossessiva del controllo e nella mente pilotata trova l’unica forma di libertà. Perché Qohen scopre la felicità nel suo surrogato virtuale, una sorta di Second Life che lo distrae dal lavoro fatto di numeri e formule matematiche ed edifici che si formano o si distruggono a seconda dell’intuizione del programmatore. A lui, splendida metafora del cinema, cui è affidato il compito di dimostrare il Teorema Zero (teoria secondo la quale tutto è uguale a zero), capita di trovare una formula di vita alternativa, ugualmente caotica ma meno passiva, anzi, basata su una forma di volontà che potrebbe sconfiggere i buchi neri e la paura. Niente di nuovo, si potrebbe dire, se non fosse, paradossalmente, per l’immaginazione antica di Gilliam, che sembra non essersi accorto del passare del tempo, restando nostalgicamente legato ad una forma di rappresentazione del futuro che è passato remoto (si deve però tenere conto che The Zero Theorem è un progetto che risale al 2009, abbandonato e ripreso, fino al 2013, anno della sua presentazione alla Mostra di Venezia). Distopia sui generis di un visionario poeta, che si perde nelle sue visioni credendoci ancora fino in fondo e portando avanti un discorso politico sincero, che viene da lontano e ha la stralunata saggeza di sempre. Se fossimo in un film di Carpenter la soluzione sarebbe disconnettersi da tutto e ricominciare dal buio. Nel film di Gilliam il finale è più sfuggente, addirittura realistico, nell’idea di un flusso inarrestabile, che si contamina via via di nuove prospettive.