Arriva dalle Filippine, ma si presenta come un reperto di un altro tempo, Cleaners, presentato fuori concorso al 38° Torino Film Festival dopo aver già raccolto vari premi in patria. Lo è sia per l’ambientazione nel 2007, ma soprattutto per la peculiare scelta stilistica adottata dall’esordiente Glenn Barit: i fotogrammi del girato sono stati infatti trattati in modo da riprodurre proprio l’effetto grigiastro e “rigato” delle fotocopie, e poi montati con un effetto stop-motion. La scelta, fatta in netta opposizione all’eccessiva “pulizia” dei kolossal odierni per il grande pubblico, rimanda naturalmente tanto alla materialità dell’immagine su carta, quanto agli albori del cinema muto e alle tecniche melièsiane. Prova ne sia il fatto che, nel panorama quasi indistinto della scuola “ingrigita” in cui è ambientato il film, Barit focalizza l’attenzione su alcuni studenti, i cui vestiti sono colorati con degli evidenziatori. Sono loro i “cleaner” del titolo, che devono rimanere in classe per le pulizie dopo le lezioni, cancellando la lavagna, mettendo a posto le sedie, spazzando i pavimenti e quant’altro, e ognuno di loro è protagonista di una storia che definisce un momento del percorso scolastico.Si spazia, nello specifico, da appuntamenti formativi che dovrebbero educare gli adulti di domani a dei principi universali (la giornata della nutrizione), al ballo di fine anno, all’elezione del rappresentante scolastico, fino a drammi più complessi come l’espulsione per una gravidanza indesiderata. Nel mezzo si organizzano esibizioni, ci si allena per i compiti, si patiscono brutte figure e si instaurano insperate solidarietà, con un tono capace di riprodurre i complessi entusiasmi e le profonde disperazioni dell’età giovane. Il tutto sullo sfondo di una società che si professa pronta a educare al domani, ma che in realtà è spesso spietata e ben lungi dalla purezza che vorrebbe trasmettere con i suoi insegnamenti.
La vita di questa generazione “di mezzo”, ancora pregna dell’entusiasmo dei suoi giovani anni, ma già toccata dalla durezza della vita, diventa così il punto di osservazione privilegiato e una netta presa di posizione politica dell’autore rispetto alla società. Non a caso, la natura oppositiva di un film indipendente nato in contrapposizione ai blockbuster e girato a Tuguegarao invece della consueta Manila, si incarna in personaggi outsider, spesso allontanati dagli altri compagni o che si scontrano con i genitori e gli insegnanti, in una visione affine alle opere di un Jean Vigo o Francois Truffaut. Sono personaggi che per questo risultano apparentemente mossi dalla stessa insofferenza con cui puliscono controvoglia la classe, ma che alla prova dei fatti dimostreranno una emotività che Barit abbraccia con entusiasmo, in un’opera protesa alla ricerca di una qualità liberatoria, a tratti anche “scorretta” nella natura escatologica di alcune gag (la studentessa afflitta da un attacco di diarrea) ma sempre molto tenera e umana. Lo stesso dicasi per questa tecnica dal risultato così “grezzo” eppure complessa nella sua elaborazione (e che ha comportato mesi di lavoro a fronte di dieci giorni di riprese), apparente vezzo stilistico, che offre al film una caratura ludica, da disegno colorato in modo infantile, ma che però diventa pure un efficace punto di vista dal “basso” verso “l’alto”, partecipe della giovane età, eppure completa rispetto alla sostanza problematica del film. Proprio per questo, l’urlo selvaggio del finale si accompagnerà a un’esplosione con cui le tinte che fino a quel momento hanno distinto e separato i personaggi dal resto della società, diventeranno il “colore” del mondo, dimostrando una volta di più la compattezza di un film piccolo eppure grande, intrecciato nei suoi livelli e capace di parlare della complessità del mondo con la purezza di una visione giovane e fortemente morale.