La lunga corsa di Andrea Magnani: casa dolce casa

Né il reale né il verosimile rispondono all’interesse di Andrea Magnani, regista, sceneggiatore e produttore di La lunga corsa, suo secondo lungometraggio di finzione, come già si intuiva facilmente dal precedente Easy – Una viaggio facile facile dove inseguiva il sogno di un umorismo rarefatto, sospeso, “alla Kaurismaki”, intrecciando i codici del road movie. Considerando pure la parentesi produttiva di Paradise – Una nuova vita diretto da Davide Del Degan, film di contaminazioni di genere e distanze da ridurre, dall’andatura sghemba ma intelligente nel restituire un pensiero non banale sulla giustizia, a ben guardare, quello dell’umorismo nero in bilico tra commedia e farsa, che non manca di stimolare lo spettatore con riflessioni su esistenze marginali e periferiche, che individua il suo spazio preferito in una narrazione che lavora sul contrasto tra dentro e fuori, stasi e movimento, che evoca il potere dell’immaginazione senza dimenticarsi della portata del reale, è un evidente tratto che contraddistingue l’idea di cinema di questo cineasta riminese, nato nel 1971.

 

 

La lunga corsa (il titolo della distribuzione internazionale è Jailbird, molto più aderente all’intreccio) racconta di un’esistenza sui generis vissuta a stretto contatto con il carcere, e di una originale forma di libertà conquistata faticosamente. Per il giovane Giacinto (Adriano Tardiolo) il carcere è da sempre la sua unica casa, dal momento che in carcere ci è nato e vi ha trascorso buona parte della sua vita, in compagnia della madre. In carcere Giacinto ha stretto legami significativi, ha imparato a camminare e ad amare e non appena le porte della prigione si chiudono alle sue spalle sente che la vita fuori da quelle mura non fa per lui. Alla prima occasione, perciò, Giacinto fugge dal mondo esterno e torna dentro, in prigione. La sua casa. Dove si sente al sicuro da ogni pericolo. Fino a quando non prende parte a una corsa podistica che gli cambierà la vita. Come dichiarato dallo stesso Magnani, oltre a essere un luogo guardato per ridefinire l’esigenza umana di libertà, il carcere è un luogo simbolico che riflette la condizione di isolamento, reclusione e smarrimento di chi non vuole vedere o non può vedere oltre il proprio mondo, di chi non riesce ad allontanarsi dalle proprie radici, di chi stabilisce con la propria casa un rapporto indissolubile. «Sono nato e cresciuto in una città che sembrava molto piccola – ha dichiarato Magnani. La cosa che ricordo maggiormente dell’infanzia è la quiete di quel luogo. Lì la gente nasceva, viveva tutta la sua vita e poi moriva; raramente, per non dire mai, si avventurava fuori dai confini della città per fare esperienza del mondo là fuori. Tutti sembravano accontentarsi della sicurezza del proprio habitat, anche se alla lunga mi è parso chiaro che era come se vivessero sotto chiave. L’ispirazione per la storia di Giacinto – un personaggio ancorato per tutta la vita allo stesso posto – è venuta ripensando alla mia infanzia e al luogo in cui sono cresciuto».

 

 

Un po’ Forrest Gump e un po’ Truman Show, un po’ La leggenda del pianista sull’oceano ma molto più surreale e grottesco, La lunga corsa è un film che gioca la sua partita interamente sull’effetto di straniamento generato tanto dalla storia del suo protagonista (nato in carcere, abbandonato in carcere, lavoratore in carcere, detenuto in carcere, ma libero soltanto in carcere), quanto dalla costellazione sgangherata degli altri personaggi: la guardia giurata interpretata da Giovanni Calcagno, incapace di liberarsi del carcere; la direttrice con la benda all’occhio interpretata da Barbora Bobulova, ancorata alla relazione squilibrata con il padre; una detenuta con l’occhio di vetro, ispiratrice di un gesto d’amore e libertà inconsueto; un prete che “vede” poco… Per le sue strampalate trovate il film possiede una vivacità a tratti sorprendente. Pur riconoscendone limiti, imperfezioni e incompiutezze, pur essendo ampiamente esplicito e dimostrativo quando avrebbe potuto essere più leggiadro ed evocativo, il film di Magnani ha il pregio, e non è poco, di lavorare con coerenza su linee e punti, su forme e spazi, restituendo allo spettatore il conflitto eterno tra fuga e libertà. Correre verso dove? Correre per chi?