L’ultima notte della mala romana: Adagio, di Stefano Sollima

Sulla carta è la storia di un ritorno, a dinamiche di gruppo che Sollima aveva esplorato già nell’esordio cinematografico di A.C.A.B. Ma è anche il racconto di un reimmergersi in un contesto romano pieno, come in Suburra e dopo le trasferte americane di Sicario e Senza rimorso. Anche per questo, Adagio è la storia di ciò che rimane, l’ideale ultima pagina del Romanzo criminale raccontato dall’autore dal 2008 a oggi – la serie tv, insieme al già citato Suburra e al film in questione forma proprio una dichiarata trilogia della mala capitolina. I malviventi che vediamo in azione rappresentano infatti gli ultimi scampoli dell’antica Banda della Magliana, ormai ridotti in decadenza, con corpi deformati (non vedono, non ricordano, non hanno più forza) che aspettano solo di lasciarsi morire. Un po’ come questa città che è essa stessa un organismo in cancrena, al limitare della vita e della morte, sull’orlo di un’Apocalisse simboleggiata dall’orizzonte perennemente in fiamme e dai continui blackout. I suoi spazi sono attraversati da carabinieri corrotti, che cercano di incastrare un misterioso personaggio (scopriremo alla fine chi è), avvalendosi di un ragazzo costretto suo malgrado a far da complice, che però al primo pericolo decide di scappar via. La sua fuga innesca così un meccanismo di resurrezione del rimosso, nel sottobosco della mala, con tre gangster che devono tornare giocoforza in azione.

 

 

Come nella precedente esperienza americana del già citato Senza rimorso, Sollima invoca quindi un tempo che non c’è più e che nella sua ultima notte si gioca il destino di una metropoli corrotta a più livelli – la visione politica è sempre centrale nell’opera del regista. La prospettiva noir si apre perciò a dinamiche da western decadente, memore anche delle lezioni di Sollima padre e dei suoi eroi terminali, in cerca di una tensione che si accompagni al divertimento per la reinvenzione iconografica di volti celebri. Tanto Valerio Mastandrea, quanto Toni Servillo sono infatti corpi “fuori” dai loro consueti personaggi e quasi in perenne reinvenzione, mentre ancora una volta svetta un Pierfrancesco Favino (glabro e incurvato) di rara bravura trasformista, che sembra una versione ancora più estrema del suo personaggio ne L’ultima notte di Amore, ovviamente ripiombato nell’incubo. Adagio, in questo modo, riesce a giocare proprio con i passaggi di stato dei personaggi, con i loro andirivieni tra la decadenza e la gloria rinnovata, dentro e fuori il set, mentre l’incedere della narrazione stringe su un cerchio sempre più soffocante.

 

 

In questa girandola degli eventi, ciò che sembra volutamente mancare è proprio il dolore: addomesticato dalla morfina, ignorato dalla contingenza degli eventi che spingono ad andare avanti nonostante tutto, ci consegna un cinema di corpi, ma non più di carne, a conferma dell’idea che Adagio sia in tutto e per tutto una storia di fantasmi, al perenne inseguimento della loro umanità perduta, in un’occasione finale che è il racconto di un tempo ormai troppo in ritardo. Sollima è perciò attento a ossequiare con polso i registri del puro racconto di genere, ma lascia poi che le ragioni dei suoi personaggi emergano con equanime precisione: ciò che spinge tanto i “buoni” che i “cattivi” è dunque molto chiaro, si fa strada tra le logiche del controllo e del denaro, e riconduce questo thriller di ampio respiro a una “semplice” storia di padri e di amici. La città, dal canto suo, resta uno sfondo attivo ma mai preponderante, destinato a esplodere empaticamente nei suoi scorci più funzionali, primo fra tutti la Stazione Tiburtina dove si consuma il travolgente finale. Presentato in Concorso a Venezia80.